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Perché abbiamo bisogno di più designer donna

Breve elogio alle stiliste

Perché abbiamo bisogno di più designer donna Breve elogio alle stiliste

Il mondo della moda dimostra che c’è spazio per tutti, dai Giorgio Armani alle Martine Rose, dai Maximilian Davis alle Maria Grazia Chiuri, ma la scalata al successo che devono affrontare le donne nella fashion industry risulta essere tuttora più difficile rispetto a quella degli uomini. Un recente studio di EUIPO dimostra non solo che in Italia solo il 25% dei designer è donna (un divario di genere che, secondo l’attuale tasso di crescita, ci metterebbe più di 50 anni per essere colmato) ma anche che in Europa le designer hanno un salario medio del 12,8% minore rispetto alla controparte maschile. Secondo lo stereotipo de Il Diavolo Veste Prada, Sex And The City, e se vogliamo anche Crudelia, il mondo della moda ruota attorno a donne potenti e feroci, ma la realtà dei fatti risulta essere ben diversa. 

«You can really tell when a designer loves women» è una delle frasi più ripetute su Twitter durante i mesi dedicati alle sfilate, e forse una delle più vere. Il livello di raffinatezza di una silhouette, la cura del dettaglio, la preziosità degli elementi intrecciati nella trama di un abito non contano nulla se il prodotto finito non compie il suo scopo ultimo: esaltare la donna che lo indossa. Per il numero di Agosto 2019, la giornalista di moda britannica Sarah Mower aveva dedicato una pagina di Vogue alle designer che stanno «rimodellando il settore, non adeguandosi alle regole maschili, ma ignorandole costantemente, fidandosi dei propri istinti, vivendo come desiderano e aprendo lo spazio creativo per far prosperare un'intera generazione.» Stilisti come Gianni Versace e Azzedine Alaïa, entrambi uomini, hanno a loro tempo celebrato il corpo delle donne maestosamente, coprendo e scoprendo le top model degli anni ’80 e ’90 nei punti giusti, ma il modo in cui designer come Miuccia Prada, Rei Kawakubo, Vivienne Westwood e Phoebe Philo hanno rappresentato e rappresentano ancora l’universo femminile in passerella dimostra che inventare abiti non significa solo glorificare un seno e un sedere, ma può anche essere un mezzo per raccontare una storia. Storicamente gli abiti servono per apparire belli, per adempiere le leggi che per natura invogliano gli umani alla riproduzione - in poche parole, per il sesso; però non sempre questo istinto si deve manifestare con uno scollo esagerato o con un paio di decolleté vertiginose. A volte, per sentirsi bella, sicura di sé e quindi seducente, una donna ha bisogno di moda funzionale, e i vestiti di queste stiliste fanno proprio quello. Si pensi, ad esempio, al lavoro di Mary Kate ed Ashley Olsen, le direttrici artistiche di The Row: le modelle che mandano in passerella sono quasi sempre completamente avvolte in metri e metri di tessuti tanto opulenti quanto neutrali, eppure i loro lunghi cappotti di cachemire, per quanto coprenti, non mancano mai di sensualità.

Ottenendo risposte contrastanti, WWD aveva domandato alle designer stesse se le stiliste lavorano in modo diverso rispetto agli uomini. La Signora Prada aveva spiegato che «essere una donna mi ha insegnato a scendere a compromessi in molte situazioni, sia a livello personale che lavorativo. Questo, per me, è un grande risultato perché dal compromesso, di solito, si può arrivare a un risultato maggiore senza necessariamente rinunciare a nulla». Mentre Donna Karan aveva evitato mezzi termini, spiegando che tutto si riduce al senso di praticità che manca agli uomini, quasi sempre incastrati nelle loro fantasie: «La moda è spesso troppo giovane. Non tutte possono indossare una minigonna, né dovrebbero farlo. Non siamo modelle. C'è una realtà. Si tratta di una realtà di base.» Alla praticità e al compromesso di Prada e Karan aggiungi una concreta sofisticatezza, e avrai l’Old Celine di Phoebe Philo, la «Donna che disegna per le Donne» per antonomasia e che oggi conta più fanpage dedicate di un qualsiasi attore di romcom adolescenziali. Non ci ripeteremo, ed eviteremo di ricordarvi come Philo è riuscita a ritrarre perfettamente tramite i suoi design quell’ideale moderno di donna emancipata, sicura delle sue convinzioni, chic quasi senza farlo notare - per quello c’è questo articolo. Per dimostrare che lei come pochi ha saputo interpretare i bisogni delle clienti del 21esimo secolo bastano i numeri record che le vendite dei suoi capi continuano a registrare sui siti di resale online, così come la sottocultura che i suoi discepoli, i «Philophiles,» coltivano mentre rimangono in fervida attesa del ritorno alle armi della loro eroina. 

Lasciando stare per un attimo i dati sul pay gap (nel 2021, le donne che lavoravano nei settori dell'arte, del design, dello spettacolo, dello sport e dei media guadagnavano 87 centesimi per ogni dollaro guadagnato dagli uomini) ed aggiungendo alla lista di designer già nominate altre come Jil Sander, Donatella Versace, Stella McCartney, Vera Wang (chi non si vorrebbe sposare in Vera Wang?) Molly Goddard e Simone Rocha, le fiorenti carriere di queste stiliste confermano che abbiamo bisogno di più designer donna, perché solo chi fa parte dell'universo femminile sa veramente tradurre i suoi segnali in abito. Negli anni ’60 Mary Quant ne aveva captato uno, portando in pista le minigonne, nei ’70 Vivienne Westwood aveva offerto il Punk neo-romantico, e nei ’90 Donna Karan e Miuccia Prada avevano restituito alle donne la possibilità di vestirsi sexy per sé stesse, non per gli uomini come voleva la moda anni ’80. Ognuna di queste stiliste ha saputo recepire come nessun altro uomo, anche se Yves Saint Laurent ci era andato vicino, con «le smoking» e tutto il resto, le necessità che accomunano le donne dell’epoca. Oltre l’innovazione artistica e la promozione dell’inclusività tra le nuove generazioni, citate da Mower su Vogue e da tutti quelli che, come giusto che sia, sottolineano l’importanza della parità di genere sul luogo di lavoro, la necessità di una maggiore rappresentanza femminile ai vertici della direzione artistica delle case di moda è, per citare un'altra frase culto di Twitter, «for the girls, the gays, and the theys,» tutto qui, perché solo chi appartiene a questi sa veramente cosa vuole indossare.