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Perché in Italia non sappiamo raccontare la moda in televisione?

Una grande epopea nazionale puntualmente trasformata in un pozzo di gossip

Perché in Italia non sappiamo raccontare la moda in televisione? Una grande epopea nazionale puntualmente trasformata in un pozzo di gossip

Più di due anni fa, avevamo scritto della serie Made in Italy prodotta da Prime Video dicendo che, al suo interno, la grande storia della moda milanese veniva raccontata con un piglio didascalico e superficiale, troppo indebitato con il format che Il Diavolo Veste Prada aveva inaugurato all’inizio degli anni Duemila. Oggi la serie è sparita nel nulla dopo una sola stagione e nonostante le critiche ricevute se ne sente forse un po’ la mancanza in un panorama televisivo italiano dominato, al momento, dai teppisti di Mare Fuori e dalle loro discutibili scelte di guardaroba. Un biennio dopo un’altra iniziativa ha voluto raccontare la nascita della Milan Fashion Week, Milano: The Inside Story of Italian Fashion diretto da John Maggio. Il film ha scontentato un po’ tutti gli addetti ai lavori che, pur lodandone la ricerca archivistica, hanno criticato come la grande storia della moda milanese fosse stata ridotta a un mucchio di scandali, cronaca nera e sensazionalismi. La cosa non stupisce eccessivamente dato che la narrazione di questa vicenda tutta italiana è stata affidata a un cineasta premiatissimo ma americano, che delle vicende della moda italiana anni ’70, ’80 e ’90, ha preferito ritrarre i lati più scandalistici e romanticizzanti senza parlare della professionalità, dell’imprenditorialità e in sostanza di quei valori positivi che hanno creato il valore che il marchio Made In Italy possiede oggi. Il che ci porta alla domanda: come mai questa storia italiana non poteva essere raccontata da un italiano? E perché il mondo della moda di questo paese non può ricevere lo stesso trattamento mediatico riservato, poniamo, al mondo del design del prodotto e dei suoi immensi creativi celebrati in tutto il mondo?

Va detto, in effetti, che l’Italia con il mondo della moda non ha fatto veramente pace. Se a Milano le istituzioni celebrano la retorica brillante e positivistica della fashion week, il resto del paese sembra guardare a quest’industria multi-miliardaria con un certo risentimento – lo stesso risentimento che viene tributato a figure come quella di Chiara Ferragni che, durante le sue due serate di Sanremo, è stata mediaticamente lapidata da un pubblico social che sembrava non solo odiare il privilegio e il lifestyle rappresentati dalla sua figura, ma anche attenderne il fallimento con una specie di sadismo mascherato da rivalsa sociale. Certo, questo atteggiamento è il risultato di un’industria della moda che si celebra davanti a tutti senza essere per tutti, colpevole senza dubbio di ipocrisie e necessariamente elitaria su cui vengono proiettati gli scontenti di una società sempre più economicamente divisa. Ma è anche vero che gli stilisti di quell’epoca, gli Armani, i Ferrè, i Missoni, gli Etro e i Versace, per citare qualche nome, hanno contribuito a creare un mito nazionale e un giro d’affari che ha indubbiamente arricchito il nostro paese – se non altro culturalmente. E la cosa che stupisce di più è che, per esempio, i nostri vicini di casa francesi, sulla moda, hanno davvero imbastito una grande mitologia mediatica (pensate a quanti film sulla vita di Chanel e di Yves Saint Laurent esistono, ma anche a documentari o drammi realisti come Haute Couture) mentre in America, a partire da Prêt-à-Porter di Altman, passando per Il Diavolo veste Prada, Il Filo Nascosto, la serie Halston e Neon Demon, giusto per fare un elenco sommario, la moda viene affrontata, se non con simpatia, almeno con apertura e interesse. Quali sono i film sulla moda in Italia? Il primo e unico che ci viene in mente è Sotto il vestito niente di Carlo Vanzina – mentre storie come House of Gucci o l’assassinio di Versace vengono puntualmente affidate ai sensazionalistici e un po’ goffi producer americani che, puntualmente, trasformano la saga della moda in Italia in una soap opera.

Ora, per tornare a Made In Italy, che in retrospettiva rappresentava davvero una novità in un panorama televisivo pieno di poliziotti, suore, medici di famiglia e piccoli criminali, dispiace alquanto che il network non abbia raccolto le critiche alla prima stagione producendone una seconda più centrata e matura, decidendo invece di cancellare la serie del tutto. Forse è vero che il pubblico non ha interesse in queste storie, forse è vero che esaltare l’avanzata dell’industria del lusso viene letta da molti come uno schiaffo alla miseria, e forse è pure vero che la moda di oggi si è così disconnessa dal mindframe di un paese reale che ancora lamenta l’epoca in cui il menswear consisteva in completi tre pezzi di lana e poco altro e che mal digerisce il post-moderno. Eppure così facendo si dà un implicito permesso ad autori e produttori di tutto il mondo di appropriarsi e travisare un tipo di lascito culturale che, di diritto, dovrebbe essere nostro. Quando l’Italia riflette sull’Italia, in effetti, i risultati possono essere bellissimi: pensiamo ai film di Sorrentino su Andreotti e Berlusconi, al successo di 1992 che raccontava la vicenda di Tangentopoli o a Esterno Notte su Netflix, che racconta della vicenda di Aldo Moro, ma anche alla serie-meteora Il Miracolo di Nicolò Ammaniti. L’esistenza di questi prodotti, e in generale il ritorno alla qualità che ha coinvolto molte delle serie tv e dei film italiani negli ultimi anni, dimostra che nel nostro paese le capacità e la consapevolezza necessarie alla realizzazione di una narrazione informata e ben realizzata sulla moda italiana esistono e che sono forse i produttori a valutare al ribasso l’intelligenza del pubblico, proponendogli prodotti “facilitati” e spesso banali.