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Perché i destination show non sono più una buona idea

Quando il fondale fa sparire i vestiti

Perché i destination show non sono più una buona idea Quando il fondale fa sparire i vestiti

Questo mese Dior e Chanel hanno organizzato i propri show in due location esotiche, rispettivamente Il Cairo e Dakar, in Senegal. Nonostante entrambi siano stati a proprio modo spettacolari (e specialmente quello di Dior, sullo sfondo delle piramidi di Giza) quando si è trattato di parlarne, moltissimi membri della stampa non hanno potuto fare a meno di esprimere una certa perplessità di fronte all’idea di far viaggiare centinaia di persone da altrettante location nel mondo, dall’America alla Corea, per lussuose vacanze-lampo che culminano nei venti minuti di una sfilata. La questione riguarda non tanto uno spreco monetario (i grandi brand hanno soldi da buttare) quanto le emissioni generate dagli spostamenti in aereo e in auto di una folla di buyer, VIC, giornalisti e dal solito corteggio di celebrità il cui unico compito è generare artificialmente interesse per eventi che, privi di aggressive campagne media, avrebbero una visibilità molto inferiore. Parlando dello show di Chanel, guardato a distanza attraverso uno schermo, nemmeno Vanessa Friedman del The New York Times, di solito aliena a certe critiche di circostanza, è riuscita a trattenersi dal dubitare la necessità di tali odissee senza peraltro che alla scelta della location corrisponda anche una scelta di design o di direzione creativa specifica: «Soprattutto, però, gli abiti sembravano una scusa per portare a Dakar 850 persone, di cui circa 500 provenienti da tutta l'Africa. Comprese celebrità come Pharrell Williams, Whitney Peak e Nile Rogers […] per promuovere la reputazione della città come centro culturale e di Chanel come una sorta di, beh... cosa? Un decisioniere creativo o un condivisore di potere globale?» Simili dubbi sono stati espressi a proposito dello show di Dior – nulla di tanto serio da rovinare le recensioni della collezione stessa ma abbastanza per chiedersi se questi destination show siano capaci di incantare ancora qualcuno o se siano in primo luogo una buona idea. 

Al punto di disillusione in cui siamo arrivati (ormai i viaggi-premio sono all’ordine del giorno nell’industria) la questione è semplice: nel migliore dei casi, la location spettacolare è un accessorio menzionato di passaggio, un fondale che rende l'evento più attraente; nel peggiore dei casi la questione della location esotica diventa preponderante, attirando critiche di colonialismo, di elitismo, di pratiche poco sostenibili e via dicendo. In un terzo e ancora peggiore scenario questi viaggi-premio sono il contorno a iniziative irrilevanti, che faticano a rompere la superficie del 24-hour news cycle e finiscono per cadere inascoltate, nullificando il senso del tutto. In tutti e tre i casi, si sarebbe fatto meglio a far sfilare la collezione in casa propria delle collezioni coerenti e ben pensate. Se i vestiti sono belli, lo saranno anche le recensioni: ricordiamo sempre che Martin Margiela esordì nella moda in un cortile condominiale, che Helmut Lang nemmeno usava una normale passerella e che Cristobàl de Balenciaga non usciva dal proprio atelier per mostrare al mondo la sua couture. Fu con Karl Lagerfeld e con i suoi show megalomani che iniziò la corsa alla location remota e faraonica: chi ricorda quando sfilò su un’isola artificiale a largo di Dubai nel 2014? O quando fece sfilare una collezione di Fendi sulla Grande Muraglia cinese? O quando occupò l’intero Paseo del Prado a Cuba trasportando con sé un esercito di glitterati, modelli e fashion workers? E se nel post-pandemia la stampa ha accolto con relativo favore il ritorno della moda itinerante, negli ultimi mesi del 2022, con il montare delle preoccupazioni ambientaliste, il sorgere di un nuovo ethos votato all’efficienza e alla ponderazione, insieme a un crescente scetticismo verso le facili trovate commerciali, all’iniziale effetto «wow» della location esotica subentrano sempre considerazioni sullo spreco di denaro e risorse che questi show rappresentano. 

@volatileonline

Fendi @ The Great Wall of China in 2007

original sound - VolatileOnline

In altre parole, la moda itinerante è diventata un po’ fuori moda quest’anno, se non proprio passè, un tipo di stravaganza antiquata e fuori tempo massimo. Lo stesso si dica delle cosiddette “experiences” che questo mese si stanno concentrando soprattutto nelle più esclusive location sciistiche: da Courmayeur a St. Moritz, passando per Cortina d’Ampezzo, i brand pagano centinaia di euro in trasporti aerei e terrestri per promuovere capsule invernali a cui sarebbe bastato forse un cartellone pubblicitario o un’inserzione in più su un giornale. Certo, lo show in location specifiche serve spesso a rafforzare la presenza del brand sul territorio: questo è il motivo per cui Louis Vuitton, Prada e Gucci hanno organizzato show “paralleli” in Asia, perché Celine ha sfilato a Los Angeles e perché Marni sfilerà a Tokyo a febbraio seguendo un programma di show itineranti che torneranno a Milano per l'anniversario del brand. In altri casi il location show ha un suo perchè: ci riferiamo agli show romani di Fendi e Valentino, ad esempio, che oltre a sfilare nella propria città di nascita e residenza hanno controbilanciato l'impatto ambientale dei propri show finanziando importanti restauri al patrimonio artistico di Roma, dalle Terme di Caracalla alla scala di Trinità de' Monti. Il confine però rimane assai labile. Nel caso di Gucci, ad esempio, il brand ha annunciato che gli show del brand saranno sempre a emissioni zero «il che significa che tutte le emissioni che non possono essere ridotte o evitate, comprese quelle legate agli spostamenti degli ospiti e del personale, si traducono nel finanziamento di iniziative di riforestazione». Altrove rimangono dubbi su mega-iniziative come il Fashion Trust Arabia 2022 che ha trapiantato per qualche giorno l'intera èlite della moda mondiale a Doha coinvolgendo anche top model, influencer e celebrità di ogni tipo volando in Medio Oriente da location di tutto il mondo.

E a proposito degli influencer, anche se fanno solo il proprio mestiere, bisognerebbe iniziare a ritenerli responsabili per la quantità di emissioni generate dai loro giri intorno al mondo. Alcuni dei più famosi nell’industria, personaggi di cui non è necessario fare il nome, vivono la propria vita in un perenne viaggio: costantemente in aereo, traversano l’Atlantico come se stessero andando al supermercato; si trovano sempre in una nuova e assurda location in Europa o Nord-Africa, passano cinquanta weekend l’anno in qualche destinazione in cui sono arrivati con aerei, jet privati, automobili, barche, bruciando ettolitri di carburante. La categoria inquina anche vestendosi: nel caso degli influencer di rilievo maggiore esistono intere legioni di corrieri e autisti che fanno avanti e indietro dallo showroom all’albergo solo per portare un look da indossare per meno di un’ora; o ricevono regali (che spesso nemmeno vogliono) arrivati da centinaia di chilometri di distanza e riempiendo stive di aerei e di furgoni. Il problema, ancora una volta, non è l’esborso di denaro, con cui ogni privato o azienda fa come vuole, ma la quantità di emissioni cumulative prodotte da singoli individui in nome del marketing. Sarebbero più giustificabili se si trattasse di CEO o manager d’azienda a cui è richiesto di viaggiare – lo sono meno quando tutto ciò che fanno è creare contenuti sui social media e bivaccare in hotel a cinque stelle. Questo mese tra Fashion Awards di Londra, experience in montagna e show in giro per il mondo il caravanserraglio della moda ha dovuto viaggiare praticamente tutta la settimana – sarebbe complicato dire dove stanno di casa.

Anche se non c’è stato un vero e proprio backlash mediatico agli show itineranti e alle experience degli scorsi mesi, queste ostentazioni di prestigio e di danaro non producono vera cultura, né servono veramente in fin dei conti. Il che non sarebbe un grave problema se fossimo ancora nell’era di Lagerfeld, dove spostare un iceberg da 265 tonnellate dalla Svezia al Grand Palais di Parigi era qualcosa di accettabile - purtroppo quell’era è finita, la crisi climatica e le ultime evoluzioni della società hanno trasformato quella magnificenza in uno spreco quasi immorale. Nella moda, la controllatissima stampa è come il proverbiale canarino nella miniera: quelli che paiono accenni marginali a situazioni spiacevoli o dubbi che vengono lanciati con vaghezza sono l'1% visibile di discussioni che, in privato, sono ben più animate, meno filtrate e brutalmente oneste. E se dunque le garbate opinioni della stampa ci possono dare un indice del futuro, possiamo forse dire che i destination show non saranno una buona idea nel 2023.