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Possiamo fidarci della sostenibilità nel fast fashion?

Le mire dietro le nuove piattaforme di reselling di Pretty Little Thing, Shein e Zara

Possiamo fidarci della sostenibilità nel fast fashion? Le mire dietro le nuove piattaforme di reselling di Pretty Little Thing, Shein e Zara

Da anni ormai i marchi di fast fashion hanno tentato di esplorare la sostenibilità includendo materiali riciclati nelle proprie collezioni o lanciandone di nuove, negli ultimi mesi a questa scelta che ha fatto già di per sé discutere, si sono aggiunte le piattaforme di rivendita di marchi come Pretty Little Thing (PLT), Shein e Zara. Un tentativo di attingere all'economia circolare che non ha convinto gli esperti e sa tanto di “greenwashing”. Secondo Vogue Business, una delle contraddizioni principali è il modo in cui le aziende comunicano la rivendita ai consumatori: Zara afferma che Zara Pre-Owned è un modo per consentire ai consumatori di prendere "decisioni più sostenibili" e all'azienda di passare a un "modello più sostenibile", senza promuovere nuovi prodotti ai clienti e introducendo opzioni di riparazione e donazione. PLT al contempo, sostiene di sperare di educare i propri clienti a fare "scelte migliori" e di rendere la rivendita "più attraente" attraverso la sua applicazione Marketplace, che è stata scaricata più di 200.000 volte dal lancio in agosto, ma afferma che "non ha fatto e non farà alcuna dichiarazione di sostenibilità". Shein ha detto di non aspettarsi di trarre profitto da Shein Exchange, lanciato all'inizio del mese, e di «voler fornire una destinazione ai clienti Shein per diventare partecipanti attivi alla circolarità e trovare nuovi armadi per i loro prodotti pre-amati».

Il mercato della rivendita è un settore in rapida crescita con un valore stimato di 100-120 miliardi di dollari, tre volte superiore a quello del 2019 secondo l'ultimo rapporto di Vestiaire Collective e Boston Consulting Group (BCG) e con una crescita prevista del 127% entro il 2026, secondo il rapporto Thredup Resale 2022. Poiché i consumatori tradizionali sono diventati più a loro agio con la moda di seconda mano e lo stigma della rivendita ha iniziato a trasformarsi in aspirazione, molti marchi e rivenditori hanno lanciato piattaforme simili, marchi di lusso compresi, da Balenciaga a Net-a-Porter. L'idea è quella di fidelizzare i consumatori attenti alla sostenibilità, offrire capi a prezzi più bassi, continuare a trarre profitto dai prodotti anche dopo che hanno lasciato il negozio, ma nel caso del fast fashion è sempre tutto meno trasparente di quel che sembra. «Quando si induce la gente a credere che un prodotto possa essere riciclato o avere una seconda vita - come nel caso di queste piattaforme di rivendita - le persone finiscono per consumare ancora di più il bene primario, perché viene visto come un acquisto senza conseguenze», afferma a Vogue Business Maxine Bédat, autrice e direttrice dell'istituto no-profit New Standard. 

Tra i motivi che hanno spinto le aziende fast fashion ad esplorare la rivendita c'è anche il tentativo di assumere il controllo delle transazioni di seconda mano - Depop afferma che nove acquisti su 10 effettuati sulla sua app impediscono l'acquisto di un articolo nuovo di zecca altrove, mentre Vinted ha dichiarato che la domanda di articoli di fast fashion di seconda mano è in continuo aumento sul sito. Allo stesso tempo la legislazione in materia di moda sostenibile ha avviato una serie di indagini condotte da organismi di controllo internazionali riguardo il greenwashing. «Se lanciano una piattaforma di rivendita senza ridurre la loro produzione complessiva, è un segnale di allarme", afferma la modella e influencer di moda sostenibile Brett Staniland, che interviene regolarmente sui social media per contestare le affermazioni dei marchi. «C'è così tanto abbigliamento usa e getta, progettato per essere indossato una o due volte», dice Maria Chenoweth, amministratore delegato della catena di negozi di beneficenza e dell'ente di beneficenza per i rifiuti tessili Traid. «Se questi marchi credessero davvero nella rivendita, migliorerebbero la qualità dei loro capi. Altrimenti, si tratta solo di greenwashing.»