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Come è stato il debutto nel menswear di Peter Do

Spoiler: è una hit

Come è stato il debutto nel menswear di Peter Do Spoiler: è una hit

Peter Do è uno di quei brand che è semplicemente desiderabile. Che si tratti di maglieria, di pantaloni, di camicie o di stivali issati su eleganti platform, gli abiti che il designer vietnamita e il suo team creano a New York mescolano una semplicità tanto apparente quanto spiazzante a una vision sofisticata e incisiva, ma soprattutto personalissima. Già durante i primi anni di vita del brand, dedicati al solo womanswear, la sua passione per i drappeggi fluenti, i tessuti plissè, la pelle martellata oltre che per le linee geometriche tanto pure da sembrare astratte avevano trasportato le creazioni di Do nello spazio rarefatto dove coesistono i lavori di Helmut Lang, dell’Hermès di Martin Margiela e del Cèline di Phoebe Philo – già mentore di Do che si è formato nell’atelier della designer inglese. Era solo questione di tempo, dunque, che queste stesse linee fluide e classiche insieme, così piacevolmente decostruite, venissero accolte dal pubblico come avulse dalla separazione dei generi e che, infine, Peter Do stesso decidesse di ampliare la propria offerta con una linea di menswear

È quello che è successo ieri durante lo show SS23 del brand, tenutosi a New York, al 59esimo piano del Liberty Building, dove a segnalare la svolta del brand c’è stato la star del K-Pop Jeno, membro degli NCT, che ha aperto lo show con un look-simbolo del menswear di Do: un blazer da sera con revers in raso abbottonato in vita in modo tale da torcere e piegare la stoffa, una camicia di spesso cotone bianco sotto, larghissimi pantaloni con pence di lucida seta con spacchi laterali e altissimi stivali. Dietro la schiena un cut-out triangolare di giacca e camicia i cui lembi sono tenuti fermi, alla base della schiena, da un minuscolo fiocco che si porta dietro una lunghissima cinghia a mo’ di strascico. Altrove si trovano enormi cappotti con impunture a contrasto, maglioni-poncho decostruiti che cadono sciolti sulle spalle, canotte trasparenti, gonne e fusciacche, borse monumentali, delicati tie-dye che mimano i colori del cielo sopra New York, consistenze seriche, maniche ricoperte di specchi a mo’ di romantiche borchie, trench di pelle e abiti di Tomtex, un cuoio vegano plastic-free ricavato dagli scarti dell'industria ittica.

Già dal primo look, così semplice sulla carta ma anche così teatrale, emerge l’approccio sottilmente sovversivo di Do che, nel resto dei design per il suo menswear, prende elementi tradizionali e anche quasi noiosi dell’abito da sera maschile, come ad esempio la camicia da cerimonia con pettorina, e ne trasforma gli elementi strutturali per creare qualcosa di nuovo. Un altro elemento centrale della collezione maschile sono state camicie da chiudere in basso e lasciare del tutto aperte sul petto che sembrano effettivamente un ibrido tra il classico costume occidentale e una tunica dai lembi incrociati reminiscente della tradizione vietnamita. In effetti, Peter Do ha già incorporato in passato suggestioni vietnamite nelle vestibilità e nelle proporzioni dei suoi look eppure il risultato finale del suo lavoro, ieri, ha superato di gran lunga citazioni, rimandi e debiti con il passato per produrre un menswear che, per genderless che sembri, trasmette un senso di rilevanza, di modernità assoluta e soprattutto di originalità senza tempo. 

Il dramma implicito nei tagli di certi abiti, nella già menzionata teatralità degli strascichi e di quei decori quasi nascosti, si bilancia così bene con l’essenzialità del tutto che l’intera collezione trasmette un senso di calma serafica in cui la fluidità di un abito, il suo rivelare dettagli del corpo maschile o il suo mettere in discussione i parametri del costume maschile non è un gesto rivoluzionario ma qualcosa di dato, che esiste da sempre e che non crea fratture con nulla di ciò che è preesistente. In una certa misura Peter Do racconta qualcosa della nostra epoca e della nostra società anche se, come dicono le show notes, il tema dello show era la dilatazione del tempo dovuta alle emozioni, un nesso poetico tra suggestioni biografiche e filosofiche, ispirato sì alla dolorosa morte del padre del designer ma in cui regna anche una strana e lucida quiete. Ecco cosa scrive Do:

«Il momento della morte, il trapasso, sembrava scorrere al rallentatore come i proiettili di Matrix o come nell paradosso di Zenone, era il tempo che si divideva, poi si divideva, si divideva, si divideva, si divideva per sempre e […] pensavo che se il resto della mia vita fosse stato così infinito non avrei potuto tollerarlo. Non potrei assolutamente sopportarlo. E poi ho pensato, e questa è la parte di cui vi volevo parlare, che se vivessimo qui? Proprio qui. Quanto potrebbe essere lussuoso? […] Guarderei gli occhi dei miei amici, della mia famiglia, i tuoi occhi, i miei occhi e mi sentirei così fortunato. Forse non si tratta di fortuna, ma di grazia. C'è quella cosa per cui non si può guadagnare la grazia. Non si ottiene di meno perché si è immeritevoli e non si può barare per ottenere di più. Ce n’è solo una quantità infinita ma distinguibile che è capace di darti la forza quando non puoi più correre