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Hello London #9 - Tate Modern Switch House

Un primo sguardo al nuovo edificio a piramide

Hello London #9 - Tate Modern Switch House Un primo sguardo al nuovo edificio a piramide
Fotografo
Christopher Argentino

La Tate Modern è uno dei primi musei di Londra a cui ci si affeziona subito, e presso il quale non ci si stanca mai di fare ritorno.

Fondata nel 2000 e nata dalle ceneri della vecchia Bankside Power Station, nei suoi sedici anni di vita la Tate è diventata la Mecca europea per gli estimatori d'arte contemporanea e sedicenti tali. Posizionata in quel tratto di camminata che va dal London Bridge al London Eye, stretta fra il Millennium Bridge e l’agglomerato di catene di street food, la Turbine Hall si trova nel tratto forse più turistico, ma al tempo stesso più piacevole e suggestivo di Londra e, con un fitto programma di mostre, screening e eventi, resta un valido riparo dalla pioggia in cui perdersi per ore, lasciarsi ispirare e fare scorta di libri d’arte.

Insomma, tutti amiamo la Tate. E probabilmente dopo questo weekend, ci verrà voglia di trasferirci direttamente lì. Questo venerdì è infatti stata finalmente svelata la nuova ala del museo, la Switch House, una moderna ziggurat che si avvita su sé stessa progettata da Herzog & de Meuron.

Da fuori la piramide di mattoni può generare i pareri più contrastanti in una scala che va da ‘squisitamente postmoderna’ a ‘così retro-futuristica da risultare antiquata prima ancora di esistere’, re-incarnazione in chiave svizzera di un’architettura razionalista che proprio all’avanguardia non è, ma che tanto ci piace di questi tempi e che ben si armonizza con l’edificio pre-esistente. In compenso però, una volta varcata la soglia, la nuova Tate è così bella che vi farà dimenticare tutto il resto.

Con una superficie enorme, la Switch House si snoda fra dieci piani, la cui superficie va a stringersi man mano che si sale, creando giochi di curve ed intersezioni inaspettate.

Il nostro tour inizia, naturalmente dal primo piano, che si articola fra due ampie stanze in cui sono raggruppate opere che richiamano le idee di spazio, architettura, scienza e sperimentazioni con diversi materiali. C’è una scatola magica rivestita specchi dentro e fuori di Yayoi Kusama (The Passing Winter), che grazie ai fori circolari che permettono di vederla da dentro ci dà l’illusione di essere catapultati in una delle meravigliose stanze di specchi dell’artista giapponese; lo spazio aperto ricavato dall’intreccio di listelli d’acciaio di Cristina Iglesias (Pavilion Suspended in a Room); il tubo genera-bolle di David Medalla (Cloud Canyons No.3: An Ensemble of Bubble Machines); la struttura geometrica fatta di oggetti e materiali di scarto di Tony Cragg (Stack) che ci fa riflettere sull’impatto che l’uomo ha sul paesaggio; il cubo di vetro rosa di Roni Horn (Pink Tons) la cui superficie estremamente levigata genera riflessi di luce inaspettati e colori sempre diversi, simulando una superficie acquatica.

Passando per una ‘zona relax’ piena di gabbie d’acciaio (Capsules di Ricardo Basbaum) in cui alcuni visitatori si sono comodamente sdraiati a riposarsi o giocare al cellulare, si arriva al livello successivo che documenta, fra le altre opere, le body-extentions di Rebecca Horn, visionaria artista tedesca particolarmente attiva negli Anni '70 creatrice di una serie di 'sculture da indossare' che, andando ad estendere il corpo, danno vita a figure disumanizzate, raccapriccianti e piene di fascino allo stesso tempo.

Il piano successivo è quasi interamente occupato dall’installazione Women and Work, frutto di un interessante studio socio-politico sulle condizioni delle donne impiegate alla fabbrica della Metal Box Company di Bermondsey, a sud di Londra, condotto fra il ’73 e il ’75 da parte di Margaret Harrison, Kay Hunt e Mary Kelly e confluito in una preziosa racconta di interviste, documenti, filmati e statistiche.

A questo livello troviamo anche lo screening di Birds di Daria Martin, un filmato dai toni surreali che unisce performance, musica, scultura e film per creare quello che l’artista ha definito ‘total artwork’; e Rhythm, una lunga tavola imbandita con tutti e 72 oggetti (pistola compresa) che Marina Abramovic mise a totale disposizione del pubblico per usarli su di lei durante la sua performance del ’74 a Napoli, I am the object.

Il quarto, uno fra i più interessanti, è interamente dedicato invece alle opere dell’artista francese Louise Bourgeois. Fra fantocci dalle sembianze umane e gambe che pendono dal soffitto, sculture di specchi che rimandano al tema del voyeurismo, dipinti sanguigni di mani che si perdono e si ritrovano e sculture di volti deformi, siamo portati alla scoperta delle tematiche più care all’artista, in un viaggio attraverso i sentimenti più primordiali dell’uomo (dall’amore alla perdita e al terrore), in un mix travolgente di grottesco e piacevole alla vista.

In conclusione, la nuova Tate è uno spazio pensato per passare il tempo, per sedersi sui cornicioni delle finestre con una tazza di tè e godersi la vista dello Shard che sbuca dagli alberi immerso fra banchi di nebbia, per guardarsi un film rannicchiati dentro una gabbia – una molto confortevole, con tanto di materasso –, per portarsi sotto braccio il proprio sgabello pieghevole fino a che non abbiamo deciso davanti a quale opera andarci a piazzare, per ammirare l’arte e al tempo stesso sentirsi a casa.