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Il ritorno degli Hipster Non finirà mai

Le prime cose che vengono in mente quando pensiamo alla parola hipster sono i baffi a manubrio, le barbe lunghe e gli occhiali con le montature giganti. Ma anche i film di Wes Anderson, le maglie a righe, i jeans skinny, il MacBook e le bici a scatto fisso. Questo almeno per quanto concerne estetica e status symbol. Per quanto riguarda, invece, la musica, naturalmente il pensiero va subito a Pitchfork, Vice e tutto il cucuzzaro di band indie-rock dai nomi improbabili, come Clap Your Hands Say Yeah, Death Cab For Cutie e Vampire Weekend. Insomma, in estrema sintesi tutto ciò che era considerato cool” ma in modo “alternativo” tra il 2001 e il 2011. Un mondo apparentemente scomparso da almeno un decennio, che forse in realtà non se ne è mai andato del tutto e ora sembra essere pronto per tornare alla ribalta. Del resto, dopo il ritorno degli Oasis e degli anni ’90, era inevitabile il passaggio al decennio successivo.

Morte e rinascita dell’hipster moderno

@isaach.p Average Hipster conversation #isaachp #trending #fyp original sound - Isaac H.P

Il tramonto dell’hipster moderno è avvenuto nel momento in cui la parte mainstream ha iniziato a prendere il sopravvento su quella underground, fagocitando il concetto stesso di hipster in bilico tra i due mondi. Ma c’è un altro elemento fondamentale che ha accomunato l’hipster in tutte le sue incarnazioni, da quella nera degli anni ’40 a quella moderna, ovvero la sua capacità (reale o meno non ha importanza) di essere essenzialmente considerato come sinonimo di conoscenza culturale superiore rispetto alla massa. Tendenzialmente, gli hipster sono riconosciuti come quelli che si attribuiscono il merito di aver scoperto una nuova tendenza culturale per primi, da qui le magliette con la scritta (auto)ironica «I Listen To Bands That Don't Even Exist Yet». È umanamente comprensibile come questo tipo di atteggiamento, prolungato nel tempo, sia diventato a tratti irritante e fonte di ironia, finendo alla lunga per sfociare nell’autoparodia: si veda ad esempio la serie TV Portlandia (purtroppo inedita in Italia) con Carrie Brownstein delle Sleater Kinney e Fred Armisen che si prendono meravigliosamente gioco di tutti gli stereotipi hipster. Oppure si pensi alla famosa battuta di The Onion: «Due hipster si insultano a vicenda chiamandosi hipster».

Venendo infine all’attualità: è vero - come si vocifera - che gli hipster, caduti in disgrazia negli anni ’10, stanno tornando? Beh, di certo si respira una certa atmosfera favorevole. Come dicevamo, il mondo è cambiato molto velocemente negli ultimi anni e la ricerca di autenticità nell’arte è sicuramente un tema che è tornato alla ribalta, visti gli ultimi sviluppi tecnologici e le nuove implicazioni etiche legate ai contenuti creativi generati dalle intelligenze artificiali. Alla questione dell’autenticità dell’oggetto artistico si affianca parallelamente anche la questione della cosiddetta curatela artistica, nel senso della ricerca e selezione degli oggetti culturali più meritevoli in un’epoca in cui abbiamo potenzialmente a disposizione un’infinità di proposte.

@lysslester i carried my nikon dslr everywhere with me lol #2010s #indiekid #hipster #2009 Deadbeat Summer - Neon Indian

Nell’era dei social abbiamo assistito alla nascita degli influencer - bookblogger, music teller ecc. - che in un certo senso possiamo considerare come la degenerazione capitalista dell’hipster che ti diceva qual era «la musica giusta». Solo che mentre l’hipster lo faceva per autoaffermazione del sé, accumulando una sorta di capitale socio-culturale, mentre gli influencer spesso sponsorizzano prodotti culturali a scopo di lucro e in maniera sempre limpida e trasparente. Il passo successivo è stato l’affermazione e il dominio dell’algoritmo: oggi è lui che comanda e che ti guida nel consumo culturale, ma a differenza della curatela umana non ti consiglierà mai qualcosa di troppo diverso da quello che sa che ti piace, e per questo difficilmente ti farà scoprire qualcosa di veramente nuovo. Ecco allora che i “curatori/creativi”, tanto bistrattati in passato, oggi sembrano più necessari che mai e piano piano si sono ri-organizzati in nuove forme: pensate ad esempio al proliferare dei podcast e delle newsletter su Substack. Un’altra manifestazione concreta del nuovo hispsterismo è il sito Perfectly Imperfect (anch’esso nato originariamente su Substack) dove in pratica ci sono varie persone considerate cool che ti consigliano prodotti culturali cool. Ovvero l’ABC dell’hipsterismo.

Sebbene l’hipsterismo sia prima di tutto uno stato mentale, si è sempre accompagnato anche ad una certa estetica ben definita, che infatti è la prima cosa che ci viene in mente quando pensiamo agli hipster. Ebbene, ormai ve ne sarete accorti, è già da qualche anno che si parla insistentemente - ne abbiamo parlato anche noi - del ritorno  allo stile indie sleaze, un neologismo coniato dalla tik-toker Mandy Lee per riassumere quello stile finto trasandato dei primi anni 2000, che caratterizzava band in realtà stilosissime come i newyorkesi The Strokes o la loro controparte inglese The Libertines.

@pietrofantini__ non avrò bisogno delle medicine degli psicofarmaci del lexotan #lexotan #icani #niccolocontessa #postmortem original sound - Pietro Fantini

Ora, sia gli Strokes che i Libertines hanno provato a rimettersi in pista in anni recenti, senza ottenere il successo sperato. Ma quest’anno il vento sembra essere cambiato e proprio di recente si è parlato molto di due grandi ritorni da parte di band “indie-hipster” (passateci il termine ridondante). Uno è la reunion degli XX che saranno headliner sia al Coachella che al Primavera Sound e che proprio pochi giorni fa sono stati invitati alla sfilata di Prada presentata durante la Milano Fashion Week. L’altro è quello dei Tame Impala, la finta “band” di Kevin Parker che in realtà è sempre rimasta attiva dilatando sempre più le sue uscite fino all’accoppiata di singoli recenti - End Of Summer e Dracula - che fanno ben sperare per il nuovo album in uscita il 17 ottobre e per il tour che passerà anche dall’Italia nel 2026. Se poi restringiamo il campo alla scena nostrana, cosa poteva esserci di più hispter del ritorno dei I cani? ricomparsi dal nulla con un album a sorpresa e un tour che ha registrato sold-out inaspettati, costringendo gli organizzatori ad aggiungere sempre più date. Insomma, è evidente: gli hipster stanno tornando o forse sono già qui. E se guardiamo alla loro storia è probabile che il ritorno degli hipster – per citare proprio una canzone de i cani - «non finirà mai».

Storia ed evoluzione del termine Hipster

Per comprendere meglio il fenomeno è bene sapere che, in realtà, già gli hipster degli anni zero erano degli "hipster di ritorno”: in pratica è un po’ come se il concetto stesso di hipster tendesse per sua natura a nascere e morire per poi tornare ed evolversi nel tempo. Gli “originali”, infatti, risalgono addirittura agli anni ’40 e avevano apparentemente poco o nulla a che fare con quelli che abbiamo descritto pocanzi: Il termine hipster, in origine, era nato all’interno della comunità afroamericana come sinonimo di hepcat per indicare gli appassionati di jazz e in particolare quelli meno tradizionalisti, più all’avanguardia e vicini alla nascente scena bepop.

Già nel 1948, il giornalista Anatole Broyard nel suo saggio A Portrait of the Hipster, pubblicato su Partisan Review, ne dava una descrizione poco lusinghiera decretandone la fine. Nelle parole di Broyard: «L'hipster divenne prontamente, ai propri occhi, un poeta, un veggente, un eroe» e lo stile di vita hipster «divenne più rigido delle istituzioni che aveva deciso di sfidare. Divenne una routine noiosa. L'hipster, un tempo individualista irriducibile, poeta underground, guerrigliero, era diventato un poeta laureato pretenzioso».

@tim.collins he served me an overpriced burger... #hipster #hipsterphase #indiekids #2010snostalgia #2010sfashion #2010sthrowback #manbun #comedyskit #parody #millennialsoftiktok original sound - tim collins

Negli anni ’50 il termine si è poi evoluto nella descrizione di una figura della controcultura bianca che in qualche modo ammirava la vitalità dei jazzisti afroamericani e il loro stile di vita bohemien, libero dalle convenzioni sociali. Lo scrittore Norman Mailer approfondì il concetto in un famoso saggio intitolato eloquentemente The White Negro: Superficial Reflections on the Hipster, pubblicato su Dissent nel 1957. Nelle parole di Mailer l’hipster bianco era un’esistenzialista la cui unica risposta vivificante possibile alla realtà moderna consisteva nel «vivere con la morte come pericolo immediato, divorziare dalla società, esistere senza radici e intraprendere quel viaggio inesplorato verso gli imperativi ribelli del sé». Il Jazz rimaneva fondamentale, scrive Mailer:


«Per dare voce al carattere e alla qualità della sua esistenza, alla sua rabbia e alle infinite variazioni di gioia, lussuria, languori, ringhia, crampi, pizzicotti, urla e disperazione del suo orgasmo. Perché il jazz è orgasmo; è la musica dell'orgasmo, e così parlava a tutta la nazione, aveva la comunicazione dell'arte anche dove era annacquato, pervertito, corrotto e quasi ucciso, parlava in qualsiasi modo popolare e ripulito degli stati esistenziali istantanei a cui alcuni bianchi potevano rispondere, era davvero una comunicazione attraverso l'arte perché diceva: Io provo questo, e ora anche tu».

Gli hipster (r)esistettero per tutti gli anni ’60 (da una loro costola nacquero i primi hippy) per poi cadere nel dimenticatoio negli anni ’70 e rinascere nuovamente sotto mentite spoglie alla fine degli anni ’90, raggiungendo infine l’apice tra il 2003 e il 2010. Come ogni subcultura che si rispetti, nel momento in cui l’hipster ha iniziato a diffondersi in maniera più consistente all’interno della popolazione ha iniziato anche ad essere visto di cattivo occhio e raccontato con termini dispregiativi.

Sebbene tra loro ci fossero anche fior fior di artisti, Simon Reynolds, oggi considerato probabilmente il più importante critico musicale vivente, li definì come una classe di curatori/creativi «che lavorano in settori come l’Information Technology, i media, la moda, il design, l’arte, la musica e altre industrie dell’estetica. Una classe di quasi creativi – spregiativamente nota come hipster – rintracciabile in qualsiasi città del mondo sviluppato, abbastanza grande e ricca da sostenere un’alta borghesia degna di questo nome». 

@tinfoilbot5 let’s get far far away from this town #hipster #nostalgia #2010s #portland Song For Kelly Huckaby - Death Cab for Cutie

Lo scrittore canadese Douglas Haddow arrivò addirittura a dire che la diffusione dello stile hipster rappresentava «la fine della civiltà occidentale» per via della sua inclinazione nostalgica verso il passato: gli abiti vintage, le polaroid, i dischi in vinile ecc. Ma come ha sapientemente notato Tiziano Bonini, autore di un prezioso saggio moderno sugli hipster, questa sorta di ossessione nei confronti del passato era in realtà un’ossessione verso la ricerca di autenticità, nella musica, negli oggetti di design, nel cibo e via dicendo. L’hipster – scriveva Bonini nel 2014 - «è la maggiore espressione culturale della generazione degli anni zero, perché questa generazione cresce in un’insicurezza mai provata prima dalle generazioni precedenti. Precaria nel lavoro, digitalizzata nelle relazioni sociali, questa generazione ha bisogno, anche solo simbolicamente, di ritrovare l’autenticità delle cose». Se pensiamo a come si è evoluta la nostra società un decennio dopo, con il proliferare di fake news e contenuti creati con l’AI, capiamo quanto il problema dell’autenticità costituisca oggi più che mai un terreno fertile per l’ennesimo ritorno degli Hipster.

La questione dell’autenticità

@swag.on.the.beat Name one Harley Davidson song… #swag #fyp #hipster #davidguetta #xyzbca #foryou original sound - swag.on.the.beat

La questione dell’autenticità intrinseca nell’hipster moderno è stata spiegata con maggiore chiarezza da quello che possiamo considerare ad oggi il più lucido e attento studioso del fenomeno: il critico letterario americano Mark Greif, professore associato della New School University di New York e fondatore insieme a Keith Gessen della rivista letteraria «n+1». Greif, tra le sue tante cose, è anche autore di due saggi fondamentali sul tema, quali The Hipster in the mirror e What was the hipster, pubblicati entrambi nel 2010 rispettivamente sul New York Times e sul New York Magazine.

In questi saggi, oltre a sfatare il mito secondo cui non esisterebbe una definizione chiara di hipster, Greif risale al substrato sociale e culturale che ha portato alla nascita dell’hipster moderno degli anni zero. La base di partenza era costituita dalla sottocultura giovanile di fine anni ‘90, spesso chiamata “alternativa” o “indie”, che si autodefiniva in funzione anticonsumista, il popolo Seattle, la generazione No Logo ecc. Ma questa sorta di “neo-bohemia” fatta in buona parte di giovani aspiranti artisti con lavori precari, spesso risiedeva in zone destinate a diventare nel giro di pochi anni i nuovi quartieri del divertimento dei giovani ricchi delle nuove classi creative legate al design, al web e al marketing. Da questo incontro-scontro culturale tra artisti trasandati imbevuti di indie-rock anni ’90 e nuovi startapper dell’economia digitale è nato l’hipster contemporaneo. Ed è da questo incrocio che deriva la principale contraddizione interiore dell’hipster moderno, eternamente diviso tra due poli, quello subculturale e quello dominante. Fin dalla sua nascita, secondo Greif, l’hipster moderno cammina su un fragile equilibrio tra underground e mainstream. Ed è questa dicotomia che lo fa sentire così in dubbio sulla propria autenticità, portandolo di conseguenza verso una ricerca ossessiva dell’autenticità in tutte le cose.