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Capire il successo del caffè "specialty" Sempre più consumatori, soprattutto giovani, stanno smettendo di sottovalutare questa bevanda

Non tutti sanno che dei cosiddetti “specialty coffee” si è iniziato a parlare già negli anni Settanta, soprattutto negli Stati Uniti. In quel momento, l’espressione, oggi ampiamente diffusa, veniva usata per indicare un caffè coltivato in condizioni ambientali e climatiche particolari, che ne determinavano un aroma molto riconoscibile. In questo contesto, l’attenzione era concentrata soprattutto sulla qualità del chicco di caffè: fattori come la varietà botanica, l’altitudine, il clima e il terreno di coltivazione venivano considerati determinanti per ottenere un aroma più complesso e distintivo.

Ancora oggi il termine “specialty coffee” definisce un preciso standard di qualità: coinvolge produttori, torrefattori e baristi che lavorano per garantire tracciabilità, metodi di coltivazione e di lavorazione sostenibili, e un’attenzione particolare alle caratteristiche organolettiche del caffè, nel tentativo di offrire un’esperienza di degustazione più consapevole. A definire in modo dettagliato gli elementi che rendono un caffè “specialty” è un protocollo stilato dalla Specialty Coffee Association (SCA), un’organizzazione internazionale no-profit che rappresenta e supporta l’intera filiera. Questi standard prendono in considerazione diversi aspetti, tra cui le varietà botaniche coltivate, le aree di origine e le caratteristiche del chicco crudo, oltre che i parametri di tostatura o di estrazione. Solo i caffè che raggiungono un risultato di almeno 80 punti su 100 nella valutazione della SCA possono essere formalmente classificati come “specialty”.

Negli ultimi anni, a livello globale, ma soprattutto in Occidente e nelle grandi città, i consumatori hanno mostrato una crescente preferenza per gli specialty coffee, soprattutto quelli preparati utilizzando metodi di filtraggio, che esaltano aromi più delicati e complessi del chicco. Questa tecnica consente di valorizzare ed evidenziare la complessità aromatica della bevanda, che spesso si perde nelle preparazioni tradizionali, come ad esempio l’espresso. La tendenza riflette un crescente interesse, a livello internazionale, verso un approccio più consapevole nei confronti del caffè in generale, orientato alla qualità del prodotto, piuttosto che alla sola funzione stimolante della bevanda. E, a farci caso, questa attenzione la si nota soprattutto tra le nuove generazioni. Insomma, quello dei specialty coffee è diventato quasi un marcatore generazionale, anche grazie ai social network e a locali specializzati alla moda e molto “instagrammabili”.

Se per i Millennial il vino naturale, veicolato come prodotto culturale, è diventato quasi un simbolo identitario (soprattutto nelle grandi città), per la Gen Z questa funzione – di recente – sembra essere stata assunta dal caffè. Parallelamente, molti Paesi stanno riscoprendo le loro tradizioni locali, con tecniche e approcci peculiari che vanno a sommarsi ai metodi più comuni. Negli Stati Uniti, ad esempio, spopolano i cold brew e le varianti aromatizzate, mentre in Asia stanno guadagnando terreno le proposte che uniscono tè e caffè. In Europa, invece, il filtro e la moka convivono con interpretazioni sempre più contemporanee e, parallelamente, il caffè sta perdendo la connotazione di bevanda “da bar”, da consumare velocemente in piedi, per diventare sempre più spesso un momento da vivere con calma.

In questo senso, l’esperienza della pandemia ha fatto la differenza, secondo Valentina Palange, autrice del libro In Italia il caffè fa schifo: «In molte case si è tornati a fare la moka e a dedicare più tempo al caffè e a sé stessi». «Un buon caffè ha bisogno di tempo, non bisogna pensare che se si attende allora non c’è qualità, anzi», spiega Palange. Questo approccio più lento deriva da metodi di estrazione che richiedono particolare attenzione e cura nella preparazione, come il pour-over e altri simili. Nel campo degli specialty coffee a fare da apripista, in questo momento, sono Paesi come l’Australia, il Regno Unito, la Corea del Sud e il Giappone. L’Italia, invece, non sta riuscendo a stare al passo. Il Paese è stato a lungo associato alla cultura del caffè, per via della sua radicata tradizione, eppure è una convinzione errata credere che qui si beva generalmente un buon caffè. In Italia il caffè si prende spesso al bancone, vale a dire in piedi e velocemente: il modo in cui ci si approccia alla bevanda, insomma, è già di per sé poco consapevole.

Il caffè che si beve nei bar italiani è nella maggior parte dei casi “espresso”, cioè molto concentrato, e per l’appunto lo si finisce nell’arco di al massimo un paio di sorsi; questo, però, rafforza anche la convinzione, molto comune nel Paese, che il suo costo non dovrebbe discostarsi più di tanto da un euro: un’idea che mal si concilia con gli specialty coffee, che invece hanno prezzi molto più elevati, anche perché viene garantita una maggiore sostenibilità della filiera. Il modo sbrigativo di bere e servire il caffè in Italia, poi, ha avuto come risultato che la stragrande maggioranza dei consumatori non presta più particolare attenzione al suo gusto. Insomma, di fronte all’ascesa della cultura del caffè e all’attenzione ai suoi rituali di preparazione, l’approccio italiano a questa bevanda appare singolare e quasi paradossale: col tempo i più giovani riusciranno, anche qui e almeno in parte, a cambiarlo?