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Un linguista di Harvard sta studiando il gergo di TikTok Si chiama “algospeak” e comprende termini come skibidi, sigma, looks-maxxing

Ogni generazione ha avuto il proprio lingo. Negli anni 2000, in Italia, si usavano frasi del tipo «come butta?», mentre nei Paesi anglofoni andava forte gnarly per descrivere qualcosa di estremo. Idiomi ripetuti fino alla nausea, che poi però finiscono nell’oblio. Con l’avvento di TikTok, non è stata solo la moda a subire un turnover di trend a velocità impressionante, ma anche lo slang e il linguaggio usato dai giovani. Se nel 2021 era impossibile non usare parole come slay o seesh come intercalari, con l’arrivo online della Gen Alpha si è iniziato a parlare di brainrot, visto che i termini usati dalle nuove generazioni risultavano spesso scollegati da una matrice culturale precisa (come, per esempio, l’AAVE, l’inglese afro-statunitense vernacolare). Oltre a termini come skibidi, sigma, looks-maxxing, usati come aggettivi per descrivere una persona, pian piano si è creata una lingua parallela all’inglese, l’algospeak. Sui social media, l'algospeak è l'uso di espressioni codificate per eludere la moderazione automatica dei contenuti, si usa per discutere di argomenti ritenuti sensibili dagli algoritmi di moderazione, evitando sanzioni come lo shadow banning o la de-monetizzazione dei contenuti: unalive significa suicidio, seggs significa sesso, lebanese viene usato per lesbica, corn (o talvolta anche direttamente l'emoji) è passato dall'essere la traduzione di mais a a indicare il porno, e così via. Il fenomeno però non è rimasto confinato al web, negli Stati Uniti sempre più studenti delle scuole medie hanno adottato questi termini sostitutivi nel proprio vocabolario. È da qui che nasce la ricerca di Adam Aleksic, meglio conosciuto come @etymologynerd sui social, un linguista di Harvard.

@etymologynerd It's simultaneously so dystopian and so cool that a new way of writing has emerged to avoid AI censorship #linguistics #language #algospeak #etymology original sound - etymologynerd

Aleksic ha spiegato al New York Times che più approfondiva il tema, più si rendeva conto di quanto gli algoritmi influenzino ogni aspetto dell’evoluzione linguistica contemporanea. Un meccanismo che accelera la diffusione di espressioni nate online, proiettandole nella cultura mainstream nel giro di pochissimi giorni, ma che allo stesso tempo strappa i termini dal loro contesto originale più velocemente che in passato. Aleksic racconta di aver iniziato a notare questo schema proprio osservando il lessico di TikTok e dei creator, rendendosi conto che certi termini passavano nel giro di una settimana da video di nicchia a hashtag virali, perdendo nel processo la loro connotazione originaria. Secondo Aleksic, l’algospeak non è più solo una questione di raggirare parole esplicite sui social: si tratta di un ecosistema linguistico, in cui le parole passano in un lampo dai margini al centro della conversazione pubblica, per poi svanire con la stessa rapidità. Quando gli influencer modificano il proprio modo di parlare per massimizzare la visibilità, quel registro viene immediatamente assorbito e replicato dal loro pubblico. Eppure, come sottolinea nel suo libro, questo fenomeno non è necessariamente un male: «I momenti di sconvolgimento linguistico, come la diffusione del netspeak nei primi anni 2000, non sono sempre così spaventosi come sembrano. Al contrario, possono dare origine a nuove forme di creatività

Il problema, però, sta proprio nel fatto che questo nuovo registro linguistico non sarebbe mai dovuto uscire dalla bolla di TikTok, approdando su altre piattaforme e poi nella vita reale. In teoria, l’algospeak nasce come strategia interna a una specifica piattaforma, una forma di adattamento spontaneo alle sue regole e ai suoi automatismi. Eppure, oggi si assiste a una vera e propria migrazione di questo linguaggio: già su X, molti utenti lamentano l’uso ormai dilagante dell’algospeak, sottolineando l’assurdità del fatto che proprio quella piattaforma, dove i contenuti espliciti non vengono censurati o bannati (a meno che non si tratti di critiche dirette a Elon Musk), abbia finito per ospitare queste stesse formule linguistiche nate per eludere la censura altrove. Su Instagram e Facebook, invece, l’algospeak non è solo una moda o un gioco, ma assume anche una dimensione politica. Qui il suo utilizzo diventa spesso necessario, perché le regole di Meta tendono a oscurare sistematicamente contenuti legati a temi delicati come la guerra o i diritti umani, soprattutto quando si parla apertamente di Palestina o di conflitti in corso. Come riportato anche da Human Rights Watch, basta usare termini espliciti o nomi precisi perché un post venga nascosto, silenziato o declassato dall’algoritmo. Tra un p4l3s+in3 e un sewer slide, l’algospeak finisce per riflettere non solo l’ossessione digitale di una generazione che non sa più relazionarsi, ma anche le contraddizioni e le tensioni politiche che attraversano il nostro modo di comunicare online. Che la linguistica stia per cambiare per sempre?