
Il boom dei members’ club arriverà anche a Milano?
Dopo Londra e New York, i terzi posti d’elite si stanno radicando anche in Italia. Una moda passeggera o un nuovo modello di ospitalità?
09 Maggio 2025
All’occhio inesperto, i members’ club possono sembrare semplicemente un nuovo modello dell’ospitalità di lusso: un mix raffinato tra ristorante, bar e hotel, capace però di offrire una sensazione di appartenenza fondamentale. Ed è stata proprio questa la chiave vincente della formula dei club privati, che ha portato città come New York a vivere un profondo boom di “terzi posti d’élite” nell’ultimo anno. Un’impennata d'interesse piuttosto singolare, se si considera che i members’ club nella città americana sono sempre esistiti, ma negli ultimi decenni erano rimasti ancorati a concetti obsoleti e impolverati, incapaci di intercettare le nuove generazioni. Secondo una recente inchiesta di Business of Fashion, il punto di svolta è arrivato nel post-pandemia. Mentre gran parte dell’hospitality tradizionale affrontava una crisi profonda, i members’ club — grazie alla loro struttura chiusa e controllata — sono riusciti a rimanere operativi. L’interesse ha cominciato così a estendersi anche al pubblico più giovane, che ha iniziato a percepire il “club privato” non più come un relitto del secolo scorso, ma come un dispositivo economico e culturale in grado di adattarsi alle esigenze di una società in trasformazione. Giganti dell’hospitality e della ristorazione come Aman, Tao e Fasano hanno colto l’occasione e hanno iniziato a rimodellare e modernizzare non solo l’offerta, ma soprattutto l’essenza stessa dei members’ club. Quelli di oggi, infatti, non sono più esclusivi salotti in stile Londra ottocentesca, ma autentici incubatori culturali, che spesso riflettono in modo diretto — anche simbolicamente — l’identità dei propri membri. Viene quindi quasi spontaneo chiedersi: dopo Londra e New York, la prossima capitale dei members’ club potrebbe essere Milano? L’apertura annunciata della Soho House milanese nei prossimi anni, insieme alla nascita di nuovi spazi simili, sembrerebbe indicarlo. Ma sono qui per restare, o è l’ennesima moda passeggera dell’hospitality metropolitana?
A dir la verità, neppure a Milano il concetto di club privato è una novità. È proprio nel capoluogo lombardo che, nel 1901, è nato il club più esclusivo d’Italia: il Clubino Dadi. Una realtà che ancora oggi rappresenta un modello quasi opposto rispetto ai members’ club contemporanei. Esclusività di genere, nessun ospite ammesso nelle aree riservate e rigide procedure di selezione continuano a caratterizzarlo. Basti pensare che nella storica sede di Casa degli Omenoni, palazzo cinquecentesco dietro piazza della Scala, come racconta un articolo de La Stampa del 2007, per l’ammissione di soli dieci nuovi membri, nel giro di appena 48 ore, 150 soci avevano già espresso un giudizio inappellabile, un processo che ricorda quasi un Conclave. Nonostante sembri che anche il Clubino Dadi, nel tempo, abbia cercato una forma di modernizzazione, resta un emblema della visione tradizionale del club all’italiana. Comprendere la storia di realtà come questa è fondamentale per interpretare il presente: come osserva Nadine Choe, founder di The Stanza Media, i members’ club sono ancora oggi un terreno di sperimentazione in una città come Milano. Eppure, secondo Choe, è difficile immaginare un vero boom di questi spazi, complice la dimensione ridotta della città e una resistenza culturale tutta italiana verso ciò che è nuovo. La differenza principale con il modello americano risiede nella cultura stessa: se negli Stati Uniti l’individualismo è un valore fondante e giustifica il pagamento di quote anche elevate per accedere a spazi esclusivi, in Italia il senso di comunità è più radicato e per molti milanesi l’idea di spendere 2000 euro l’anno per entrare in un ristorante risulta semplicemente poco sensata. In fondo, Milano è già piena di ristoranti e bar che funzionano come veri e propri punti di riferimento sociali, pur senza il filtro di un sistema di membership.
Allo stesso tempo, il tratto distintivo dei members’ club va ben oltre la semplice funzione di ristorazione: si configurano come hot-spot sociali. La loro forza non risiede tanto nell’ospitalità in sé, quanto nella collettività che sanno costruire attorno a una community selezionata. È questa rete di contatti, affinità e riferimenti condivisi a rappresentare il vero valore della membership, spesso dal costo elevato. Non si tratta solo di accedere a uno spazio curato e funzionale, ma di entrare in un circuito culturale e sociale che parla una lingua comune. In questo senso, il concetto di “terzo posto” — uno spazio che non è casa né lavoro, ma un punto di riferimento nella vita quotidiana — diventa centrale. Come sottolinea Choe, ciò che rende davvero irresistibili questi luoghi è proprio la loro affidabilità come spazi di socialità e la forza simbolica che portano con sé. L’appartenenza a un determinato club diventa una forma di validazione sociale e culturale, un’estensione dell’identità individuale attraverso una scelta di consumo ben precisa, che va ben oltre il valore monetario: «Se aveste 5.000 dollari da spendere, comprereste una nuova borsa di cui potreste stufarvi nel giro di un anno? O paghereste per un’iscrizione annuale che vi dia accesso a un gruppo di persone che la pensano come voi, a un ristorante affidabile e possibilmente a una palestra e una spa?» Un’argomentazione che mai come ora resta fondamentalmente rilevante all’interno del panorama del lusso, dove i clienti si stanno sempre di più dai beni “materiali”, per prediligere il concetto di lusso esperienziale.
Eppure, qualcosa nell’essenza di Milano sta cambiando. Tra l’influenza sempre più pervasiva dei social media, le estetiche virali e le dinamiche demografiche in evoluzione, nuovi attori stanno trasformando la città in un laboratorio culturale più aperto all’ibridazione dei modelli internazionali. Attori che, a differenza della stragrande maggioranza della popolazione locale, appartengono a una classe socio-economica ben diversa. Negli ultimi mesi, Milano è diventata sempre più appetibile come rifugio per gli ultra-ricchi, una tendenza confermata anche dal Private Wealth Migration Report di Henley & Partners, che ha posizionato l’Italia al sesto posto a livello globale per numero di milionari in ingresso, con Milano che si è confermata la meta europea preferita subito dopo Portofino. È proprio questo afflusso di nouveaux-Milanesi — tra expat, professionisti internazionali e italiani di ritorno con una mentalità globalizzata — a generare nuove esigenze e aspettative. Per questa fascia di residenti, il members’ club non è un anacronismo, ma un’opportunità concreta per creare connessioni, accedere a un determinato stile di vita e riconoscersi in una comunità selezionata. In altre parole, ritrovarsi tra simili. Un cambiamento che potrebbe ridefinire, almeno in parte, anche il modo in cui la città concepisce la propria socialità urbana. Del resto, anche se gli italiani non sembrano ancora del tutto pronti all’avvento dei members’ club, Milano lo è eccome, come dimostrano le aperture di spazi come Casa Cipriani, The Wilde e The Core Club. Saranno questi i “terzi luoghi” così bramati dai giovani?
Third space is not a third space if you have to pay hefty amount to access it and is only accessible to certain class of society. Third space is supposed to be free and accessible.
— Vaishnavi || वैष्णवी (@MVaish06) January 9, 2025
It's a mall/club. Not a third space. https://t.co/dx1cFVdUAG
Ma se il “terzo luogo” diventa accessibile solo dietro pagamento, allora vale la pena chiedersi: è davvero uno spazio per tutti, o piuttosto un territorio riservato a un’élite? La proliferazione dei members’ club porta con sé un’idea sottile ma potente: che per fare networking, accedere a stimoli culturali di qualità e vivere una dimensione comunitaria riconoscibile, serva necessariamente una membership e quindi un certo privilegio economico. Si corre così il rischio di delegittimare tutto ciò che nasce spontaneamente negli spazi pubblici, svalutando la dimensione collettiva, gratuita e inclusiva della socialità urbana. Strade, piazze, centri culturali e bar di quartiere restano ancora oggi luoghi fondamentali di aggregazione e di resistenza culturale, soprattutto per chi non può — o non vuole — entrare in circuiti esclusivi. La necessità di un “terzo luogo” è diffusa e trasversale, non riguarda solo una fascia alta e disposta a spendere cifre importanti. Mai come ora, non solo a Milano ma in molte metropoli del mondo, i giovani adulti sentono il bisogno di spazi intermedi capaci di coniugare relazioni autentiche, accessibilità e senso di appartenenza. Ed è su questi spazi, pubblici e condivisi, che forse si gioca la sfida più importante: non tanto replicare i modelli anglosassoni, ma creare luoghi in cui la socialità possa essere, davvero, un bene comune.