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Intervista ai The Collettivo

Intervista ai The Collettivo

  “Something about Mary Quant” è il titolo del primo lavoro discografico dei “The Collettivo”, gruppo emergente dello scenario rock partenopeo. Sono cinque ragazzi cresciuti nello stesso quartiere che hanno una passione comune: la musica e, soprattutto, un’idea ben precisa su come viverla.
C’è determinazione in ognuno di loro, c’è voglia di farcela nonostante la consapevolezza che non sia poi così semplice, ma c’è soprattutto allegria, ironia e autoironia in quello che fanno, si sente l’odore della libertà nel loro piccolo studio di registrazione, si riesce quasi a percepire il rumore degli schemi che si frantumano e vengono giù come un vecchio palazzo; l’unica cosa che conta lì dentro è fare rock, usare questo linguaggio universale provando a dipingere un volto diverso alla nostra tanto chiacchierata città.

Il vostro primo album si intitola “Something about Mary Quant”, come mai la scelta di questo omaggio a colei che viene considerata l’inventrice della minigonna?
Mary Quant tagliando un semplice pezzo di stoffa ha cambiato un’epoca, quindi ci sembrava il caso di omaggiare questa rivoluzionaria una volta tanto senza barba e senza connotazione politica.

Sulla copertina del disco si vede una donna decisamente in carne che apre un frigorifero alla ricerca di cibo, cosa avete voluto esprimere con quest’immagine?
Ci ispiriamo alla musica inglese di un certo tipo ma teniamo a rivendicare il nostro essere italiani; per questo motivo abbiamo cercato una donna in carne per la copertina, proprio per sottolinearlo, senza cadere nella banalità, così come hanno fatto i grandi del cinema come Fellini e Antonioni.

Che cos’è lo stile per i “The Collettivo” e quanta importanza date al vostro look?

Da un po’ di tempo collaboriamo con Lait lab, un giovane brand napoletano e portiamo in giro le loro cose. Abbiamo visto come lavoravano, ci sono piaciuti ed ora in pratica ci vestono.
Prima di quest’incontro eravamo assolutamente anti-stile, non c’era nessun filo che ci unisse in termini di abbigliamento, mai un tema comune.

Come definite invece il vostro stile musicale e che variazioni ha subito dagli inizi ad oggi?
Abbiamo cominciato a suonare insieme in maniera molto casuale. Siamo cresciuti tutti nello stesso quartiere, ci siamo incontrati da grandi e per gioco abbiamo iniziato a fare musica insieme; all’inizio musica senza senso, poi col tempo ci siamo resi conto che qualche pezzo un senso lo aveva e abbiamo iniziato a mettere in giro le nostre “creazioni”. Siamo arrivati alle finali regionali dello Sziget festival e abbiamo vinto. Ci siamo ritrovati ad essere un gruppo senza averne consapevolezza.
Quello che non è mai cambiato del nostro stile è quest’aspetto goliardico, è fondamentale per noi stare bene insieme e divertirci. Non siamo di quei gruppi che si siedono a tavola per “fare” il pezzo.
Tra di noi c’è molta compatibilità emozionale. C’è stata dall’inizio. Quando abbiamo cominciato a suonare provenivamo da esperienze musicali diverse, raggae, funk, rock, e abbiamo provato a venirci incontrato l’un l’altro per creare un unico suono. Il nostro stile era molto più americano di quanto oggi è britannico, vicino a gruppi come i Counting Crows. Poi progressivamente ci siamo avvicinati al fenomeno Indie che nasceva in Inghilterra e che prendeva ispirazione da un certo tipo di anni Ottanta. Da qui è nata la voglia di unire quest’istinto punk, che è la cosa che più ci piace, ad intuizioni melodiche e ritmiche.

Parliamo del vostro primo videoclip “Selfish”, trasmesso da emittenti di una certa importanza come MTV e ALLMUSIC, come me lo descrivereste?

C’è leggerezza nella nostra musica, ma non è mai banalità, dietro schemi che possono sembrare anche frivoli o scanzonati spesso nascondiamo una grande profondità. Come spiegarti, ci piace prendere in giro questo mondo non dimenticando che in questo mondo ci siamo pure noi e quindi alla fine ci prendiamo in giro da soli.
“Selfish” è un brano sul danaro, tutti sono sempre pronti a dire “No, ma i soldi, io non gli do importanza, non mi piacciono” , i The Collettivo invece, forse sono più sinceri e lo dicono, anzi lo cantano, a noi i soldi piacciono e ci servono, perché rinnegare questa verità?

Nel video indossate delle maglie sulle quali si legge “WE DON’T LIKE THE MUSE”, che inoltre è anche una traccia del vostro cd, come mai questa provocazione e soprattutto perché non vi piacciono i Muse?

Anche questo è un gioco, noi in realtà non abbiamo niente contro i Muse, ci piacciono.
[Sollo il cantante della band prende la parola e per spiegarmi il senso di questa provocazione mi racconta un episodio accaduto nei primi del Novecento, scherzando sulla sua età afferma che lui già c’era!]
Enrico Caruso fa la sua prima apparizione al Metropolitan di New York con “il Rigoletto”, al termine di questa, la platea, composta dal popolo, applaude entusiasta mentre il loggione aristocratico è ammutolito. Il silenzio s’interromperà solo quando il tenore di casa si alzerà commosso ad applaudire.
Questo è quello che secondo noi accade ancora oggi, si tende a seguire la massa. Presunti intellettuali decidono che i Muse, ad esempio, sono “grandi” e così i Muse diventano il fenomeno del momento, quando nella musica non dovrebbe essere assolutamente così. Musica è libertà, soprattutto libertà di gusto, qualsiasi canzone che riesca a smuovere un cuore è una bella canzone senza che ci sia il bisogno che qualcuno la etichetti come tale. Con le nostre maglie, con la canzone “We don’t like the Muse” non facciamo altro che rivendicare scherzosamente questa libertà della musica. Già nella vita esistono così tanti vincoli , se iniziamo a metterli anche nella scelta di chi ci deve piacere musicalmente, in base all’opinione altrui, è finita.

Molti hanno detto che con la vostra musica la distanza musicale tra Napoli e Londra si annulla, vi lusingano questo genere di affermazioni? Ma soprattutto, siete d’accordo?

Ci fanno indubbiamente piacere, ma teniamo a conservare le nostre origini napoletane. Essere meridionali d’Europa ma non d’Italia, è questo il gioco.

Siete spesso accostati agli Atari e ai Gentelment’s Agreement, cosa ne pensate di questa nuova scena rock partenopea?
Siamo tutti cresciuti con l’influenza dei Clash, dei Cure, del Pop ed inevitabilmente risultiamo essere lo specchio di quello che abbiamo ascoltato, è questo che ci accomuna a questi gruppi. Dire: “Ok, siamo di questa terra, siamo napoletani ma parliamo un linguaggio universale”. È questo che ci può permettere di diventare meridionali d’Europa ma non d’Italia come abbiamo detto prima. È un bel progetto comune secondo noi che alla fine da senso alle parole quali globalizzazione, Europa unita che sono sulla bocca di tutti.

Cosa ne pensate del mercato discografico italiano? Voi che siete un gruppo emergente, che difficoltà avete incontrato per farvi strada?
Due sono le principali problematiche che ci si ritrova ad affrontare in Italia: la commercializzazione in radio e lo scarso interesse dei produttori verso le novità.
Per quanto riguarda la radio, per noi, come per tanti altri gruppi emergenti che non posseggono grandi capitali, far passare un pezzo è praticamente impossibile. Per l’Indie rock poi è ancora più difficile, il mercato Italiano radiofonico è totalmente chiuso. In Inghilterra, ad esempio, c’è un mercato “mainstream” dove troviamo Elton John, David Bowie, il Pop degli anni 70/80, e poi esiste anche un mercato della New Wave, “underground”. Qui in Italia non potrebbe mai essere così perché c’è una gerarchia da rispettare. Noi siamo subordinati a questa gerarchia di valori ed è quasi impossibile scalare la montagna. Quello che spesso fa poi la differenza tra l’ambiente discografico anglosassone e quello italiano sono i produttori. Nel nostro paese manca l’ansia per l’artista. I Beatles, ad esempio, avevano si un eccezionale talento ma anche un produttore come George Martin; i Clash, che sulla carta potevano essere all’inizio musicisti approssimativi e poi sono diventati signori musicisti, avevano alle spalle produttori che volevano l’arte. Noi ci reputiamo fortunati ad aver incontrato Matteo Cantaluppi il quale non è semplicemente il nostro produttore ma il sesto elemento della band. È sempre stato disponibile, ha creduto, divertendosi , nel nostro progetto. Ha una mentalità molto europea e soprattutto una grande passione per la musica.

Progetti futuri?
[Ed ecco che partono le battute, c’è chi si dedicherà al mercato ortofrutticolo, chi aprirà un lido, chi farà il macellaio e così via. Dopo questo momento di gioco si torna seri e i “the Collettivo” ci dicono che continueranno ad insistere, a credere in loro stessi e a lavorare sodo. Mentre vado via sento già le note del loro secondo disco che prendono vita.]  http://www.myspace.com/thecollettivo