
Vale più un brand o il suo direttore creativo? Il messaggio social di Hedi Slimane ai dirigenti di Celine fa riflettere
Sabato scorso, Hedi Slimane ha rotto il suo rigoroso silenzio per postare questo messaggio nelle stories del proprio account personale che iniziava così: «Ho lasciato la Maison Céline nell’ottobre 2024. Sono convinto da tempo — e ne sono felice già adesso — che la Maison Céline saprà reinventarsi con grande stile, sia nelle campagne pubblicitarie che nell’immagine istituzionale, creando un universo fotografico unico e indipendente, pronto per un nuovo capitolo davvero promettente». Il messaggio proseguiva auspicando che il brand trovasse un nuovo corso «con uno spirito di creatività libera e innovativa, senza aggrapparsi al passato, a prestiti altrui o a un’eco insistente del mio stile fotografico». Un messaggio tra le cui righe il designer ingiunge al brand di tagliare i ponti con gli ultimi sette anni della propria storia. E posto che un rinnovamento debba esserci, è giusto che un brand cambi completamente al cambiare del direttore creativo?
Hedi Slimane e l’identità di Celine
Quando nel 2018 Slimane arrivò da Celine, concesse una rara intervista a Le Figaro, riportata boi da BoF, dove, prevedibilmente, gli venne domandato cosa sarebbe stato del Celine di Phoebe Philo al suo arrivo. «Non si entra in una casa di moda per imitare il lavoro dei propri predecessori», disse. «Tanto meno per appropriarsi dell'essenza del loro lavoro, dei loro codici e degli elementi del loro linguaggio. L'obiettivo non è nemmeno quello di andare nella direzione opposta rispetto al loro lavoro. Sarebbe un'interpretazione errata». Per il designer serve «preservare l'integrità di ciascuno» e «riconoscere con onestà e discernimento ciò che appartiene ad un'altra persona. Significa anche iniziare un nuovo capitolo. Si arriva con una storia, una cultura, un linguaggio personale che sono diversi da quelli della casa. Bisogna essere se stessi, contro ogni previsione».
Hedi Slimane with a message for Celine: essentially move on, stop referencing me, and good luck finding a new photographic identity pic.twitter.com/QsLGZCDYl4
— Louis Pisano (@LouisPisano) September 7, 2025
Al suo arrivo da Celine nel 2018 Slimane ha rifatto a sua immagine l’identità del brand, cancellando ogni traccia (ma non ogni memoria) dell’era di Phoebe Philo e firmando ogni singolo aspetto di campagne, show, sfilate anche sui social media, dove veniva riportata ovunque la dicitura "By Hedi Slimane". Un approccio accentratore che ha creato attriti con il management verso gli ultimi tempi ma che nel frattempo ha trasformato Celine in un mega-brand con un giro d’affari da due miliardi e passa. Il “lavoro” di Slimane era di riposizionare Celine come un produttore di capi di alta qualità per uomo e donna, facendolo uscire dal womanswear di nicchia di Phoebe Philo e facendolo espandere commercialmente con capi “classici” e dall’ampio appeal commerciale e dotarlo di una nuova identità visuale. Così è stato fatto: il brand dovrebbe rinunciare a sette anni di costruzione identitaria in un solo colpo?
Eppure non esiste concetto di brand senza un concetto di continuità. Nessuno può negare che Slimane abbia un suo stile, ma non ci sentiamo di dire che con il suo show di debutto Michael Rider lo abbia imitato in qualche modo, semmai citato vagamente. Servirebbe comunque tenere presente che l’identità e il concetto di heritage di un brand rimangono qualcosa di cumulativo, a prescindere dalla differenza tra le diverse direzioni creative. Tanto più che le recenti campagne pubblicate da Celine, quelle che Slimane sembra indicare come copie del suo stile, servono a presentare la collezione FW25 che è stata disegnata da lui. Lo stile delle foto post-show della collezione SS26 di Ryder è già molto differente – è solo logico che l’ultima collezione dell’era precedente sia presentata in modo coerente con il passato.
Il direttore creativo vale più del brand?
Dicevamo sopra che è irrealistico aspettarsi che un certo brand cancelli del tutto sette anni di identità visuale in nome dell’indipendenza creativa. Anzi, il vero contributo di Slimane è stata l'offerta commerciale, gli accessori lifestyle brandizzati (da un reformer per il pilates a surf e caschi da moto, da cucce per cani a rossetti e beauty passando anche per un servizio di borse in coccodrillo bespoke) ma forse le campagne in totale bianco e nero, le immagini e anche i casting favoriti da Slimane erano forse l'unica cosa che il management voleva cambiare oltre alla rinuncia alle sfilate fisiche. Secondo @trussarchive, ad esempio, nell'andarsene, Slimane si poterà via la prorietà di certi profumi e, secondo voci non confermate, anche pezzi di archivio dei suoi sette anni. Siamo certi sia giusto? L’indipendeza creativa deve esserci, ma sempre nell’ottica di un lavoro fatto sul brand che proseguirà anche quando un certo direttore creativo se n’è andato lasciandosi dietro qualcosa.
Il messaggio di Slimane ancorché legato all’aspetto visuale e creativo di Celine, sembra domandare che il brand rinunci al progresso che lui stesso ha portato a un’azienda che lo aveva pagato per farlo. È ovvio che l’azienda si sforzi di non stravolgere un’intera identità e narrativa visuale che rappresenta l'evoluzione del brand. Ciò che ha fatto Slimane è storia ed è, per tanto, di tutti al netto di questioni di proprietà intellettuale come nel caso delle foto. Ciò che colpisce in seconda battuta del messaggio del designer è l’emergere di un altro concetto: i designer sono i nuovi brand? Quando spende i suoi soldi (sempre meno) il cliente di lusso investe in un certo creativo o in un marchio? Non lo sappiamo veramente – ma la sensazione è che grossa parte dei clienti del lusso si basino più sui social media e sulla generale brand perception che, poniamo caso, sulla guida di nss ai cambi di direttore creativo. I cultori sono, quasi per definizione, sempre una minoranza rispetto al resto.
Cambio designer, cambio tutto
In passato i cambi di direzione creativa non erano né così frequenti né così pubblicizzati. Gucci e Louis Vuitton sono diventati colossali senza averne uno per interi decenni. Quando cambiava, il nuovo direttore creativo era interprete, e non riscrittore, dell’identità del brand. Oggi, la mentalità delle “ere” di un brand fa sì che il pubblico nutra aspettative ambigue: da un lato ci si attende un rinnovamento, dall’altro si vuole continuità – ma senza che nessuno riesca a trovare la core identity di un brand, che si riconosce spesso solo in base a ciò che non è. Eppure la storicità dei grandi brand deriva precisamente dal loro resistere alla prova del tempo, dalla continuità dell’offerta e dal contributo cumulativo di creativi che ne aggiornano e correggono la traiettoria nei decenni. Quando Galliano andò via da Dior, il brand non smise di vendere le Saddle Bag; né Bottega Veneta ha rinunciato alla brand identity dell’era di Daniel Lee di colpo, anzi, l’ha mantenuta nel packaging e in altri piccoli dettagli; così come Louis Vuitton non ha smesso di vendere le LV Trainer di Virgil Abloh, né ha cancellato il generale corso da lui stabilito per il menswear.
Forse i problemi di fiducia che il pubblico del lusso nutre verso i brand di moda deriva proprio da questa costante discontinuità, questo sforzo di distanziare un direttore creativo da un altro fin da subito promuovendo la mentalità che il singolo direttore creativo sia un brand in se stesso. Un pericoloso culto della personalità: da un lato perché spinge i direttori creativi a diventare unidimensionali, fossilizzandosi su una sola, rigida visione; dall’altro perché fa del brand un involucro sempre più fragile e anodino per designer sempre diversi, un trascurabile veicolo il cui valore si riduce al valore del suo pilota. Il che ha senso ma rappresenta un annullamento del concetto di “marchio” comunemente inteso, trasformandolo in una mera piattaforma intercambiabile, priva di una identità duratura e autentica, e lasciando i consumatori disorientati di fronte a un lusso che sembra più un riflesso temporaneo di un individuo che un’eredità collettiva.














































