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Il debutto del nuovo “vecchio” Celine di Michael Rider Il nuovo direttore creativo ha ricreato, più che un linguaggio, un’attitudine

Che cosa fa di un brand un cult? Forse, per essere adorati nella moda, serve essere un’assoluta singolarità come lo fu il Celine di Phoebe Philo – e non per un discorso di successo commerciale, dato che il brand è diventato un colosso in termini di vendite durante l’era di Hedi Slimane, ma sul piano culturale. Durante gli anni di Phoebe Philo, il brand non divenne solo sinonimo di un nuovo linguaggio nel womanswear, ma formò un’intera classe di creativi che includeva Daniel Lee, Maximilian Davis, Peter Do ma anche Michael Rider, ex-direttore del womanswear da Ralph Lauren e nuovo direttore creativo dello stesso Celine. Lo show con cui ieri Rider ha debuttato è stato, in effetti, come un flashback del passato decennio di Phoebe Philo con il ritorno della Phantom Bag (in versione modificata), di certi foulard blu e sottili scarpe stringate apparse sempre durante quell’era e in generale di quell’approccio insieme molto materico e vagamente astratto che è il segno più palese di tutti i designer della “scuola” di Philo. Ma Rider non ha necessariamente ricalcato lo stile del “vecchio Celine”, preferendo invece includere l’omaggio all’era del grande rilancio del brand in una stratificazione di cenni e ispirazioni che andavano dalla direzione storica di Céline Vipiana, passando per i sette anni di Michael Kors e arrivando anche a citare la recente epoca di Hedi Slimane. 

Il debutto del nuovo “vecchio” Celine di Michael Rider  Il nuovo direttore creativo ha ricreato, più che un linguaggio, un’attitudine | Image 573673
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Il risultato finale è stato, senza alcun dubbio, un'eccellente collezione di debutto in cui i “classici” dello chic francese prendevano vita proprio attraverso uno styling basato sull’accumulo: strati di camicie, giacche, cappotti, cinture con fibbie che escono dalle giacche, maglioni avvolti su blazer da cui escono colletti di camicie indossate sopra maglie dolcevita, cardigan indossati come mantelle e in generale tanti nodi, tanti drappeggi. Un eccesso e un’esuberanza che funzionano nel comunicare uno stile meno scarno e asciutto rispetto all’epoca appena conclusasi (si può ammettere che Slimane fosse apparso “distratto” e poco partecipe nelle ultimissime collezioni, presentate con filmati dove spesso a malapena si distinguevano gli abiti) ma che hanno comunque evidenziato una necessità di editing e focalizzazione maggiore per le future collezioni. A fronte di alcuni look assolutamente memorabili, ce n’erano un paio che avrebbero potuto essere eliminati per alleggerire visivamente l'insieme e ridurre i diversi punti di contatto che lo styling volutamente disordinato creava con la collezione più vista della stagione, e cioè il debutto di Jonathan Anderson da Dior, altra collezione in cui figurava un certo senso di chic collegiale anni ’80. L’effetto complessivo, comunque, ha avuto sufficiente personalità ed energia per dare un senso della visione che Rider porterà da Celine e che certamente prenderà maggior forma nei prossimi mesi. Senza dubbio, un tocco molto identitario e apprezzabile, da non abbandonare, è la proposta di gioielleria affastellata in modo assolutamente barocco ed estroso, le cinture sovrapposte cariche di monili, gli anelli così fitti da sembrare tirapugni ricoperti di gemme. 

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In ultimissima analisi, se letto insieme a quello di Anderson da Dior, questo debutto di Rider da Celine (per cui i fan del brand hanno atteso non poco, bisogna ammetterlo) ci può dare una misura di come vengono gestiti oggi i passaggi di carica e la narrazione di questi grandi, storici “classici” della moda istituzionale. Sia Anderson che Rider, infatti, hanno adottato un approccio eclettico-nostalgico per le proprie prime collezioni, creando una sorta di compilazione dei successi e dei linguaggi delle ere precedenti del brand, e dunque costruendo sopra il pre-esistente piuttosto che ripartendo da zero. Un tipo di approccio che, dopo le prime e malsicure collezioni per Burberry, ad esempio, anche Daniel Lee si è deciso a seguire e che si oppone alle radicali riscritture dell’estetica di certi brand che funzionavano in un mondo pre-Covid (come ad esempio col Celine di Hedi Slimane stesso) ma che oggi invece sono forse percepite come una sorta di “spreco” di un passato la cui validità va mantenuta. È un approccio colto e citazionista, perfetto per una moda post-storica come quella che per ora domina le storiche capitali del lusso, ma che, come certa arte alessandrina o manierista, fatica a sembrare autenticamente nuova oltre al gioco, un po’ accademico, di riconoscere qualche citazione qui e lì. Ed è anche vero che il passato non va rinnegato – ad ogni modo, qui come da Dior, la collezione non solo funziona ma sembra anche promettere notevoli miglioramenti in futuro. Per ora la partenza ci ha lasciato fiduciosi.