È stato un fashion month “orientalista”? In tempi di crisi, l’industria del lusso ammicca ai mercati dell’Asia meridionale e occidentale
In letteratura, pittura e musica, il termine “orientalismo” descrive un certo atteggiamento che gli europei hanno tenuto per secoli nei confronti dei paesi asiatici. Superficialmente, si manifesta come una fascinazione estetica verso un concetto molto stereotipato di “Oriente” in cui vengono erroneamente accorpate culture e identità nazionali diverse tra loro. È un termine che, come lo intese negli anni ’70 lo studioso Edward Said, si riferisce a costrutti ideologici che ripropongono, in chiave estetizzata, la contrapposizione di un mondo civilizzato e uno barbarico banalizzando e travisando le culture che si dovrebbero rappresentare. Un termine che nel corso dell’ultimo fashion month, tra Milano e Parigi, è tornato in mente data l’apparente moltiplicazione, tra i vari show, di elementi di design chiaramente riconducibili ai costumi di diversi paesi dell’Asia meridionale e occidentale – crucialmente, gli stessi paesi che ora il lusso sta provando a sedurre - come India e paesi della Penisola Arabica, ma anche Thailandia e Indonesia. La questione è emersa in modo più singolare da Prada che, a fronte di una collezione in realtà molto neutra, ha affrontato le proteste di un’associazione di artigiani indiani dopo che in passerella era apparso un sandalo costosissimo praticamente identico al tradizionale Kolhapuri. La protesta si è allargata a Sambhaji Chhatrapati, ex-parlamentare e membro dell’antica famiglia reale della regione del Kolhapur che l’ha definita «new age colonialism» ed è finita anche sui principali media nazionali del paese. Le scuse ufficiali non si sono fatte attendere sotto forma di una lettera formale alla Camera di Commercio del Maharashtra firmata dall’erede del Gruppo, Lorenzo Bertelli. Ma come si diceva è stato un contrasto isolato in una stagione dove vaghi e prudenti cenni a design tradizionali di diversi paesi asiatici hanno fatto capolino tra i look.
.@Prada responds to the Kolhapuri chappal controversy, acknowledging that the sandals were inspired by traditional Indian footwear. The luxury brand said it is in contact with the Maharashtra Chamber of Commerce, Industry & Agriculture on this topic. pic.twitter.com/pha8qbb03M
— Apoorva Mittal (@Appy2209) June 28, 2025
Prima di osservare quali e quanti siano stati questi cenni, occorre comunque sottolineare che praticamente ogni brand si è tenuto con grande prudenza nel territorio della citazione senza mai sfociare in un’appropriazione vera e propria, che sarebbe stata senza dubbio segnalata dai diretti interessati. Brand come Zegna e Louis Vuitton, ad esempio, hanno citato come ispirazione stagionale, rispettivamente, «il sole cocente e il caldo di Dubai» e «la sensibilità sfaccettata dell'attuale sartorialità indiana: tessuti, tagli, colori e artigianato condizionati da un legame con la città, la natura e la vitalità del sole». Le collezioni dei due brand, con grande acume, non hanno voluto imitare i costumi di quei paesi di riferimento ma ricordarne atmosfere e colori – non di meno le camicie Nehru di Zegna, le borse ispirate a Il treno per il Darjeeling di Louis Vuitton e le righe da pigiama (ricordiamo che “pigiama” è una parola di origine persiana) presenti nelle loro e nelle altre collezioni sembravano un tentativo di dialogo diretto con il pubblico delle penisole arabica e indiana.
Altrove, da IM Man ma anche da Emporio Armani, Qasimi e ancora una volta da Prada, sono apparse camicie prive di colletto e molto lunghe che ricordavano remix del classico Kurta indiano. Da Jacquemus, alcuni look ricordavano la combinazione di tuniche thawb e cappelli taqiyah che si vedono nei paesi del Golfo e ancora da Bluemarble c’erano più classici caftani. Nella Resort 2026 di Valentino c’era una sorta di djellaba in camoscio, ripetuta poi attraverso una serie di bluse che, abbinate a gilet dai decori geometrici, ricordano vagamente un mix di moda indiana e costumi beduini. Da Dries Van Noten, invece, c’erano le fasce colorate in vita che ricordavano le hizam in tessuto in cui, in Yemen, si inserisco i pugnali tradizionali jambiya, o lo zonnar; e sempre nello stesso show apparivano dei rettangoli di tessuto ampiamente decorati e simili a sarong presenti anche nello show di Junya Watanabe il quale, insieme anche a Walter Van Beirendonck, includeva tuniche lunghe da uomo.
Se si può parlare di “orientalismo” è proprio perché tutti questi diversi tocchi di design (che siano colletti, fazzoletti indossati a mo’ di sarong, camicie-tuniche indossati sui pantaloni, combo di bluse e gilet stampati) sembrano rievocare un vago e distante orizzonte, quasi quel paese lontano, mitologico e immaginario a cui gli scrittori vittoriani si riferivano con l’erroneo e colonialistico termine di “Oriente”: un mondo dove le distanze tra ispirazioni indiane, sud-est asiatiche, nord-africane e arabe si confondono appiattendosi in qualcosa di diverso ed equidistante da tutte le culture di provenienza. È copia, rispettoso omaggio o sfacciata seduzione? Ai posteri l’ardua sentenza. Più che di colonialismo o post-colonialismo, però, verrebbe da parlare di globalismo: questi abiti che paiono ammiccare a un’audience ambigua e composita non sono la trasformazione di abiti nazionali in “costumi”, ma tentano di creare un guardaroba globale. Il completo italiano, il chiodo di pelle da biker, sneaker o stringate di pelle esistono in un vortice sincretista che vuole servire, senza distinzioni di sorta, un po’ tutti i clienti del mondo – che sono poi sia quei clienti che spendono, sia per massimizzare l'impatto mediatico di sfilate presentate a clienti di tutto il mondo che riconosceranno alcune delle silhouette in passerella senza controsensi concettuali tra una moda “Made in Italy” con una “worldwide distribution”. Sicuramente, almeno, si può dire che le scelte dei brand ne tradiscono le inquietudini: si riuscirà a trovare nuovi spazi per crescere in Asia che possano alimentare la crescita di un sistema inceppato?