Cosa significa “innovazione” nella moda di oggi? Come sempre, un sacco di cose diverse

Si dice spesso, in questi tempi di crisi, che la moda sia stagnante. Eppure negli ultimi giorni due grandi protagonisti del settore hanno dato segni di voler fare le cose in modo diverso: da un lato Chanel che ha investito in una piattaforma di riciclaggio e dall’altro Gucci che, si dice, stia esplorando il format see-now-buy-now per il prossimo show su cui si giocherà la stessa esistenza del brand. Ma che cos’è l’innovazione nella moda oggi? È un elemento che fa parte del gioco o solo l’ennesima sirena del marketing? «L’innovazione nella moda è marginale», ci ha detto Ginevra Gozzoli, Head of Business Development di Bernardelli Stores, «c’è una noia totale. Oggi, se vai in giro per negozi, noti una sproporzione enorme nei prezzi e una mancanza totale di stimoli». Anche Chiara Torino, founder della start-up Nextcouture che si occupa di moda di lusso personalizzata, ha espresso una simile opinione: «La moda si è fermata trent’anni fa, non qualche anno fa quando ha iniziato a rincarare i prezzi. Sul piano dell’innovazione, la moda si è inceppata quando sono finiti i grandi couturier». In un’epoca in cui, come ci dice Torino, «il direttore creativo sta perdendo la sua centralità» si è creata una situazione per cui «la moda ha iniziato a replicare questo meccanismo con la sostituzione, la successione di un creativo rispetto a un altro, senza mai riuscire a replicare l’originale e cercando di tenere in piedi gli heritage di questi brand replicando il loro stile». Anche secondo Marco Fiandesio, CEO di Nextcouture ed ex-Worldwide Strategic Sourcing & Group Procurement Director del Gruppo Kering, «la moda stagna perché non c’è novità» e servirebbe, per far tornare i brand in dialogo con il mercato, «dare al cliente qualcosa di diverso, perché non è che il cliente non compra più e gira nudo; semplicemente non sa più cosa comprare per trovare qualcosa di diverso. Questo “diverso” non è l’esclusività che si trasforma in qualcosa di estremamente caro, ma qualcosa di individuale, che deve essere accessibile anche a persone normali, non solo a miliardari». Il problema principale rimane uno, e lo stiamo affrontando con strumenti inadeguati.

I grandi gruppi che dominano il mercato «pensano che l'innovazione sia ancora allargare l’e-commerce e aprire negozi. È un modello vecchio di vent’anni e sempre uguale, ma se qualcosa non sta funzionando e siamo in un lento declino, bisogna capire il perché. Il  cliente vuole qualcosa di unico: nessuno vuole spendere tanto, i prezzi sono saliti e prendere un qualcosa che può avere la stessa persona seduta al tavolo di fianco al ristorante». Secondo Fiandesio, alla radice del problema si trova il continuo tentativo di «recuperare la decrescita delle vendite in termini di numeri a carte invariate, cioè senza cambiare nulla. Il modello resta quello: direttore creativo, distribuzione fisica, aumento del prezzo, magari anche una capsule in più durante l’anno o un designer più istrionico, cambiato ogni sei mesi». I grandi gruppi, continua, «stanno cercando un nuovo equilibrio tra tutti questi elementi, ma per lo stesso risultato finale. Non hanno ancora capito che quel modello è finito, è morto e non tornerà più. Non basta risparmiare un po’ sulla confezione o aumentare il prezzo per modificare il risultato finale. Quel prodotto a quel prezzo non viene più comprato in quel modo». Forse i tempi sono davvero cambiati, ma per capire veramente come si strutturi l’innovazione nella moda dentro i grandi conglomerati del lusso, abbiamo parlato anche con Katia de Lasteyrie, esperta parigina di alta gioielleria e di innovazioni nel settore dell'hard luxury, con quasi 20 anni di esperienza in marchi leader del settore come Christie's, Chanel, Louis Vuitton e LVMH,  è stata proprio lei a introdurre da LVMH i diamanti creati in laboratorio. Per de Lasteyrie, le cose sono più complicate: «Quando si parla di un grande gruppo o di una grande azienda come quella che abbiamo in mente, non hanno una sola categoria di prodotto. E l’innovazione sarebbe in realtà diversa per ciascuna di esse. Penso che sia importante tenerlo a mente, perché quello che ti aspetteresti,, nella moda non è lo stesso di quello che ti aspetteresti nella pelletteria. E sicuramente non è lo stesso di quello che ti aspetteresti negli orologi e gioielli di alta gamma, che sono il mio settore».

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Per de Lasteyrie, «l’innovazione la si può vedere in modi diversi. Puoi vederla a livello di prodotto, a livello di esperienza del cliente, o a livello di processi interni. Dipende davvero da cosa stiamo cercando di ottenere. Prima di tutto bisogna capire bene quale parametro o vettore stiamo considerando: stiamo parlando di qualcosa che riguarda direttamente il cliente o di un miglioramento, per esempio, dei processi di produzione?» Attualmente, de Lasteyrie sta lavorando a un proprio progetto che è sul punto di essere svelato – ma nel suo nuovo lavoro così come nei suoi precedenti ruoli, portare un’innovazione dentro una grande azienda stratificata non è un processo immediato, anzi. «Credo fermamente che ci sia sempre spazio per innovare, ma l’innovazione deve essere fatta nel modo giusto e avere senso per il cliente finale. È importante chiedersi perché si fa una determinata innovazione e cosa si vuole ottenere con essa», spiega. Per LVMH, continua, l’innovazione è un valore centrale, ma assume significati diversi a seconda della categoria di prodotto perché, per un brand con una propria identità «non tutte le innovazioni hanno senso; bisogna valutare se rispecchiano la cultura e i valori del marchio e se trovano riscontro nel cliente finale. Nell’ambito della moda, innovare riguarda il tipo di prodotto, la qualità dei materiali e il modo in cui questi vengono reperiti. Dal punto di vista del business, spesso si guarda solo all’esperienza del cliente, ma l’innovazione coinvolge anche processi e miglioramenti dietro le quinte». Come linea generale, comunque, de Lasteyrie crede che «l’innovazione sia in realtà un processo bottom-up. Significa che si parte dall’osservazione di una vasta gamma di segnali culturali, generazionali e geografici, spesso al di fuori dell’industria stessa, e non semplicemente da ciò che accade nel settore del lusso. Si tratta di leggere questi segnali, collegare i puntini, formulare ipotesi e testarle sul campo. L’innovazione non è un imperativo imposto dall’alto, ma qualcosa che cresce organicamente e si sviluppa nel tempo».

E anche se «la vera innovazione è guidata dalla curiosità e dalla possibilità di esplorare», de Lasteyrie specifica che «c’è una differenza tra l’esplorazione e la generazione di concetti e la loro traduzione in risultati concreti e tangibili, significativi per il cliente finale. Quindi non significa che non stia accadendo, ma i processi e le filiere del valore sono tali da richiedere tempo prima di tradursi in un valore aggiunto reale per il cliente». Molto del peso che l’innovazione ha per i grandi gruppi riguarda essenzialmente ciò che l’esperta definisce «la catena del valore», un concetto fondante del business management introdotto nel 1985 dall’uomo d’affari e professore di Harvard Michael Porter nel suo libro Competitive Advantage. «L’innovazione non si limita a un singolo passaggio, ma attraversa tutta la catena del valore, partendo dal materiale fino al prodotto finale. Per il cliente, l’innovazione più percepita è probabilmente quella legata all’esperienza d’acquisto». Quando si parla di innovazione in un gruppo come LVMH «non si punta a innovare per il prossimo anno. Di solito ci si chiede cosa avrebbe senso e perché guardando a un orizzonte di dieci o venti anni». Insomma, quella che finora è esistita silenziosamente è la cosiddetta «innovazione incrementale» che si verifica quando «hai qualcosa che esiste già e migliori una variabile all’interno del prodotto o in qualche parte della catena del valore» mentre è «piuttosto rara» ciò che l’esperta chiama «innovazione dirompente» che si verifica invece quando «crei qualcosa di completamente nuovo da zero - è molto rara, perché significa mettere in discussione le ipotesi correnti su un determinato prodotto». Inutile specificare, ma de Lasteyrie preferisce l’innovazione dirompente.

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Anche nella visione più equilibrata che ci offre de Lasteyrie si giunge a ciò che lei definisce «un bivio», ovvero: «un momento in cui ci si interroga sul vero scopo di questa industria: perché esiste, cosa crea e quale tipo di valore emozionale apporta. Nel mio prossimo progetto sto affrontando quella che considero una delle questioni più fondamentali, forse paradossali: qual è il vero scopo del lusso?» Una domanda tanto più difficile quanto più si considera che questo nuovo progetto si svolgerà nell’ambito della gioielleria – ma che è in realtà un quesito che potrebbe essere applicato all’intera industria. «Storicamente, il lusso ha sempre avuto la funzione di salvaguardare l’artigianato e di custodire il modo in cui la cultura viene trasmessa da una generazione all’altra», spiega de Lasteyrie. «Ma oggi ho la sensazione che la generazione attuale cerchi nel lusso un significato più profondo, qualcosa che vada oltre la tradizione. Mi sto chiedendo come questo significato possa tradursi in qualcosa di utile, se il lusso possa avere uno scopo specifico e quale sia. Per questo sto lavorando all’intersezione tra lusso e tecnologia: il lusso è ricco di creatività e parla direttamente alle emozioni, mentre la tecnologia è più utilitaristica e funzionale, meno emozionale. Quello che voglio capire è cosa succederebbe se questi due mondi si unissero, se si riuscisse a creare un ponte tra la risonanza emotiva del lusso e l’utilità della tecnologia».

Ginevra Gozzoli,, ci ha detto che «è come se la vera innovazione si fosse fermata. Quando c’è, è spesso fine a sé stessa, non porta a un prodotto indossabile». Forse qualche barlume di speranza si intravede in brand indie molto concentrati sullo sviluppo di materiali come lo scandinavo Houdini o il brand italo-cinese Raxxy fondato cinque anni fa da William Shen. Per Gozzoli, «l’innovazione parte anche dalla visione. Dobbiamo tornare a chiederci che tipo di lusso vogliamo. Bisogna continuare a evolvere, senza stufare. Ma oggi tanti brand fanno semplicemente copia e incolla, il lusso è diventato fast fashion con prezzi alti. Il problema è che c’è troppa finanza e pochissima creatività: si va verso la quantità, non la qualità e la gente lo percepisce. Non a caso, si stanno rivalutando settori come il tech-wear, lo sportswear, il golf, il tennis». Tutti settori, in cui l’innovazione è non solo palese ma «c’è attenzione al materiale, alla funzione, e allo stile. Per il pubblico l’innovazione non è ideologica. Cercano innovazione pratica, che serva, che si possa usare, che abbia più funzioni. Il prodotto ideale è quello che si porta ogni giorno, in contesti diversi. Ecco perché lo sportswear oggi vince: è versatile».

Proprio la ricerca di un modello alternativo al dominante ha spinto Chiara Torino a fondare Nextcouture: «La moda del lusso, in particolare, nasce dall’idea che il prodotto esclusivo non sia necessariamente quello dal prezzo inaccessibile, ma piuttosto un prodotto irripetibile, e quindi unico. Da qui nasce il tentativo di capire come offrire qualcosa di davvero unico», ha spiegato. «L’unica alternativa che ci è sembrata percorribile è stata quella di consentire la personalizzazione: offrire al cliente finale la possibilità di scegliere ogni elemento del capo, per creare non solo il proprio stile, ma anche la propria immagine, il proprio look. All’epoca il mercato non offriva una soluzione realmente scalabile in questo senso. Da qui nasce la ricerca della tecnologia, ovvero di uno strumento che potesse rendere scalabile e quindi più democratico e accessibile questo concetto di prodotto unico». In breve, «l’idea di fondo è che non è più il direttore creativo, la personalità istrionica, al centro delle maison come unico detentore dello stile. Oggi non è solo il cliente finale a comporre il proprio capo, ma si apre spazio anche a una creatività più diffusa, che coinvolge più stilisti».
 

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La piattaforma vuole inserirsi in due punti critici del mercato: quello dei creativi esordienti e delle scuole e quello della filiera. E proprio nel caso di quest’ultima, l’idea della start-up vuole risolvere i problemi che attualmente piagano il settore che, come spiega Marco Fiandesio sono nati «quando gli stock hanno iniziato a far scoppiare i magazzini» e nell’impossibilità di distruggere la merce o ridurre le uscite dei brand si è scelto di produrre facendo, secondo Fiandesio, «una decisione molto controproducente, perché se si produce meno, si vende di meno e costa di più produrre. Da lì il crollo di praticamente tutti i brand». Per il CEO, infatti, «la filiera si divide in due tronconi: chi spera che ritornino le produzioni di massa di migliaia di pezzi per colore e taglia, e chi invece capisce che anche i grossi brand stanno aumentando i drop nei negozi e quindi le produzioni a fine anno possono essere le stesse o anche di più, ma la frammentazione aumenta». Secondo lui, «un business model dove ci sono pezzi unici costanti tutto l’anno è qualcosa di nuovo. Molti stanno capendo che quella è la parte del futuro. La verità è che la struttura della supply chain italiana è la migliore al mondo». Idealmente, nelle parole di Chiara Torino, servirebbe scavalcare il meccanismo inceppato del lusso e ottenere «una coerenza più vicina tra la sostanza e la qualità del prodotto, ovvero ciò che il tessuto e la confezione rappresentano realmente». Sicuramente un filo comune in tutte le interviste condotte riguarda l’incontro delle manifatture di lusso con le nuove tecnologie – forse il più importante fronte dell’innovazione nella moda oggi. Anche su questo punto, secondo Fiandesio, i grandi gruppi «si sono adagiati sugli allori» dato che le tecnologie attualmente in uso presso molti brand per gestire lo stock o predire i consumi futuri: «Si stanno attrezzando con l'intelligenza artificiale per vedere cosa è meglio produrre – però l’intelligenza artificiale fa i suoi calcoli su dati del passato, magari dell’anno prima. Non è un’analisi di mercato». 

Ma l’innovazione tecnologica è fondamentale anche per Katia de Lasteyrie che, parlando di come si possono intuire i trend del futuro,  ha detto: «Mi chiedo sempre come un trend tecnologico o un evento economico più ampio possano tradursi in una particolare parte del business e nel comportamento del consumatore. Ho menzionato tecnologia, economia e geopolitica, ma lo stesso vale per il comportamento, perché l’uso quotidiano della tecnologia ha un impatto diretto sul nostro modo di comportarci». Alla fine dei conti, l’innovazione secondo l’esperta riguarda più il quadro generale che i molti elementi singoli, e il quadro generale restituisce un’immagine molto umana, o almeno dovrebbe. Quando le abbiamo domandato come risolva o abbia risolto, nel proprio lavoro, il rapporto tra umano e tecnologico, lei ci ha lasciato con questa riflessione: «Penso che la questione si allarghi a un interrogativo più ampio: qual è il nostro rapporto con la tecnologia, collettivamente come specie, cultura e società? Da un lato ci sono i tecno-ottimisti che sostengono che la tecnologia risolverà ogni problema, dall’altro i tecno-pessimisti che ritengono che la nostra relazione con la tecnologia abbia degradato la qualità delle interazioni quotidiane. Mi chiedo ogni giorno se il mio lavoro riguardi di più l’abilitare la creatività o l’ottimizzare i processi interni. È probabilmente un approccio più filosofico al modo in cui facciamo le cose. Credo che la produttività sia ciò che le macchine ci aiuteranno a migliorare, ma ciò che mi interessa davvero è il genio umano, il potenziale umano. Credo che ognuno di noi nasca con un potenziale enorme, che va oltre la produttività. Sono molto più un sostenitore della creatività umana, e tutto ciò che cerco di fare, anche se forse non direttamente, punta a questo. L’ottimizzazione può esserne un effetto collaterale, ma non è il mio obiettivo principale.»