FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

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Per fare moda in Italia bisogna per forza vivere a Milano? C'è chi dice no

A Milano ci sono diversi tipi di creativi: chi è nato e cresciuto in città, chi ha tutte le spese a carico dei genitori e chi invece deve gestire più lavori per guadagnarsi da vivere (e finanziare i propri progetti). Il costo della vita a Milano è elevatissimo, con gli affitti che nell’aprile del 2025 hanno sfiorato medie di 1000 euro al mese persino per un bilocale di periferia. Nonostante questo, le possibilità professionali che la città offre ai giovani sembrerebbero compensare le cifre astronomiche che devono affrontare per realizzare i propri sogni. La moda in Italia è a Milano, è vero, ma spesso la sua reputazione la precede - e nasconde i suoi difetti. Adesso che il networking si può fare anche da lontano, che i social media ci connettono tutti e che (pare) le Ferrovie Italiane hanno lanciato un piano di investimenti da 100 miliardi di euro per migliorare i trasporti nel Paese, viene da chiedersi se, per chi lavora nella moda, Milano debba essere per forza casa. Del resto il Made in Italy non si chiama mica Made in Milan: Roma, Firenze, Napoli, Bologna e intere regioni come il Veneto e la Toscana sono state culla natale dell’artigianato del Paese, dove tutto è iniziato e dove tuttora si trovano alcuni dei più grandi produttori italiani. E se il capoluogo lombardo rappresenta ormai il principale “ponte” geografico e culturale tra la moda italiana e quella internazionale, bisogna anche dire che la città riesce a dialogare veramente con l’estero solo durante le settimane clou del settore, dalle Fashion alla Design Week. 

 

Da un punto di vista storico, il successo della moda a Milano su Roma e Firenze è da attribuire agli anni ‘80, al boom pubblicitario ed economico italiano e alla popolarità raggiunta dagli stilisti milanesi di quell’era. Milano, cuore industriale e finanziario d’Italia, non solo prometteva migliori infrastrutture e un accesso diretto ai mercati internazionali, ma rappresentava l’accessibilità: il famoso ready-to-wear femminile che oggi, a livello mediatico, sembra prevalere sul lusso aristocratico romano o sul classicissimo menswear del Pitti fiorentino. Negli anni il capoluogo lombardo si è imposto come piattaforma globale, una trasformazione che ha potuto fare leva anche sullo sviluppo digitale per abbandonare la figura dell’artigiano in favore di lavori più “alla moda”, come il buyer, l’influencer e il content creator. Come ci spiega Francesco Tombolini, dirigente aziendale con esperienza internazionale pluritrentennale nel settore, Milano è ancora rilevante mentre Roma e Firenze sono superate in quanto poli della moda. «Sono città dove le sottoculture o non esistono, o vengono usate nella maniera sbagliata», afferma Tombolini, aggiungendo però che oltre a realtà extraitaliane «come Zurigo, Atene e Anversa», in Italia si stanno affermando nuovi poli culturali da tenere d’occhio. Mentre a Roma e Firenze continua a proliferare «una mercificazione della moda legata alla vecchia equazione dell'artigiano della produzione», racconta l’esperto, «città come Napoli hanno un grande potenziale». Ciò a cui deve dare priorità un brand emergente, raccomanda Tombolini, sono i canali ancora prima dei mercati. «Un designer è anche un’emanazione della società, della cultura nella quale sta vivendo: costruire una collezione non vuol dire solo fisicamente, ma anche nei contenuti». Ben venga stare a Milano per comunicare con l’estero, aggiunge Tombolini, che però raccomanda di non puntare troppo in alto. «Quando tu vuoi vendere da tutte le parti, sappi che non venderai da nessuno. Oggi non si deve più ragionare di mercato, si deve parlare di canale», e qui entrano in gioco i media contemporanei e i nuovi marketplace, dunque la comunicazione e l’immaginario di un brand oltre il suo coinvolgimento nella vita milanese. Del resto, se non hai nulla da raccontare oltre alla tua popolarità, sarà difficile farsi notare nel caos della Fashion Week. 

 

A parte il discorso caro vita milanese, la necessità di spargere la moda italiana oltre Milano risponde a un bisogno di narrative diverse. L’esempio più chiaro di quanto avviare un’attività lontano da Milano  possa contribuire al successo di un designer arriva da Federico Cina, fondatore dell’omonimo brand che prende continua ispirazione dalle sue radici, nate e cucite in Romagna. Dalle simpatiche borse Tortellino alla produzione stessa di Federico Cina, lasciata in mano ad abili artigiani a pochi passi dallo studio di Cesena, ogni elemento del DNA del brand esprime una indissolubile connessione con la regione. La FW25, presentata a Milano a Fondazione Sozzani e dal nome Assunta e Giacomo, era una dedica ai nonni di Cina, una linea ispirata alla loro relazione fatta di citazioni sartoriali che guardavano a un passato rustico tradizionale. «La mia terra è fondamentale per il mio business», ci racconta il designer, sottolineando che oltre a permettergli di monitorare da vicino ogni passaggio della produzione e della distribuzione, basare l’azienda a Cesena offre un valore aggiunto all’espressione artistica del brand. «Per un breve periodo ho riflettuto sul fatto di spostare il brand a Milano, ma ho ritenuto opportuno tenere salde le radici in Romagna. Qui ho un contatto diretto con le aziende che appartengono alla rete produttiva locale», aggiunge Cina, ricordando che il brand gode comunque di strategici punti d’appoggio a Milano, «team di grandi professionisti che si impegnano tutti i giorni a promuovere le mie creazioni». 

 

Ma se si volesse fondare un brand o un’attività lontano da Milano, bisogna passare per forza del tempo nel capoluogo lombardo? Federico Cina lo ha fatto, ma ha studiato fashion design al Polimoda di Firenze e all’Osaka Bunka Fashion College in Giappone. La dinamicità di Milano gli ha inizialmente presentato diverse opportunità, ci racconta, ma senza «la spensieratezza e allegria tipica romagnola, è stato faticoso». Assieme a Federico Cina, si potrebbe fare l’esempio di Luca Magliano, designer bolognese che ha lavorato per un periodo al fianco di Alessandro Dell’Acqua, a Milano, prima di lanciare il brand che porta il suo cognome nella sua città natale che tuttora ispira il suo immaginario. O ancora del brand Massimo Osti, che sempre a Bologna continua a promuovere l’eredità del fondatore con un magnifico archivio e produzioni locali. Ma le conferme che la moda italiana non è solo a Milano arrivano anche da più in alto, in Veneto, dove Golden Goose (e volendo potremmo aggiungere anche il conglomerato OTB) continua a investire nella regione riuscendo così alla crisi del lusso di cui si parla tanto. Il brand continua la sua espansione su scala internazionale proprio grazie all’unicità dell’artigianato veneto, un dettaglio che si intreccia abilmente con la narrativa del marchio sviluppata attorno all’originalità e alle imperfezioni estetiche del fatto a mano. Non a caso, il CEO del brand Silvio Campara attribuisce la crescita dell’azienda alla singolarità del prodotto e al trattamento caloroso offerto a tutti i clienti. «Non facciamo il prodotto più bello al mondo», aveva affermato Campara negli spazi di HAUS, a Marghera, «ma capiamo l'importanza dei bei ricordi per i consumatori, è il motivo per cui tornano tutti in negozio». 

 

Tutti questi brand, da Federico Cina a Magliano passando per il gigante delle calzature Golden Goose e al conglomerato impegnato a Venezia OTB, dimostrano che, nonostante Milano offra una miriade di opportunità ai creativi che sognano di entrare a far parte della fashion industry, esistono altre opzioni: più economiche, spesso meno stressantipiù autentiche, legate al territorio e meno ingabbiate dalle pressioni del sistema moda. Mentre in altri Paesi la fashion industry tende a concentrarsi in un’unica grande città, in Italia il tessuto culturale e produttivo del settore è esteso lungo tutto lo Stivale, non solo nel capoluogo più costoso, e i giovani devono imparare a sfruttarlo. Se la priorità principale di un brand indipendente deve essere la comunicazione, allora avere una narrazione locale e originale da condividere con la propria community (non che Milano non ne abbia, diciamo piuttosto che ce ne sono già abbastanza) vale più di qualsiasi sfilata nel calendario ufficiale della Fashion Week. Come ci racconta Cina, del resto, «per un brand indipendente è fondamentale lavorare sul prodotto, sulla sua riconoscibilità ma soprattutto raccontare una storia che sia vera».