
La crisi del lusso è arrivata anche da LVMH
Ci si aspettava una crescita del 2%, e invece c’è stato un calo del 3%
15 Aprile 2025
Se l’alta marea solleva tutte le barche, che succede nella bassa marea? Fino a qualche mese fa, LVMH era considerato più o meno inscalfibile – dopo un anno di crisi del lusso, dopo tutto, le sue vendite si erano soltanto stabilizzate invece di aumentare. E invece coi risultati presentati ieri è arrivata la sorpresa: il più grande gruppo del lusso al mondo ha registrato vendite in calo. La mega-azienda di Arnault, che è anche la maggiore azienda europea, ha aperto il 2025 con un trimestre debole, vittima delle crescenti difficoltà macroeconomiche, delle incertezze politiche internazionali e soprattutto da un evidente raffreddamento della domanda nel settore del lusso. Il gruppo francese ha chiuso il primo trimestre con ricavi pari a 20,31 miliardi di euro, in calo del 2% rispetto allo stesso periodo del 2024. Su base organica, cioè al netto delle variazioni di perimetro e degli effetti valutari, il calo arriva al 3%. Il risultato è abbastanza più in basso delle attese degli analisti: Barclays, ad esempio, aveva previsto un fatturato stabile intorno a 21,2 miliardi di euro. Non serve indagare troppo per capire dove si trovi la falla nella nave: in Asia, escluso il Giappone, le vendite sono crollate dell’11%, in Giappone solo dell’1% e negli USA del 3%. In Europa invece, grazie a turismo e tassi di cambio, c’è stata una leggera crescita. È indubbio comunque che l’eccessivo affidamento fatto sul mercato asiatico comincia a far sentire lo scotto ai vertici del gruppo. Tanto che ieri il magazine La Lettre diceva che negli ambienti finanziari parigini si parli di una separazione del colosso: da un lato la moda e dall'altro gli alcolici. Un rumor che, se vero, confermerebbe un trend verso lo scorporamento e l'alleggerimento delle strutture aziendali che ha già coinvolto Kering, che sta scorporando il proprio portafoglio immobiliare per ridurre il debito, e diversi altri piccoli brand che stanno tornando indipendenti staccandosi dai giganti del lusso.
LVMH : scission entre LV et MH ?
— BFM Business (@bfmbusiness) April 14, 2025
"Nous sommes qu'au stade de la rumeur. Maintenant, cette séparation ne serait pas forcément créatrice de valeurs à court terme"
Amandine Gérard, Président, La Financière de l'arc@GuillSommerer pic.twitter.com/Nrs3mt9yAy
Anche i risultati per divisione si sono rivelati più deboli del previsto, soprattutto nella categoria moda e pelletteria, che rappresenta la colonna portante del gruppo e che ha subito un calo organico del 5%. Un dato importantissimo sia dato che gli analisti avevano previso una flessione tra l’1% e il 2%, sia perché l’intero capitale culturale del gruppo è basato proprio sulla moda di lusso. E se Louis Vuitton ha performato leggermente al di sopra della media del trimestre è stato il secondo titano delle vendite, Dior, che ha visto gli affari prosciugarsi. Secondo BoF, il problema del brand è la “fashion fatigue”, ovvero il risultato combinato di sovraesposizione mediatica, aumenti dei prezzi ed eccesso di offerta che hanno stancato la clientela. Già dolorante da diversi trimestri, il più fragile segmento vini e spiriti ha riportato il peggior risultato, con vendite in calo del 9% su base organica. Un calo dovuto al fatto che gli alcolici sono, insieme ai profumi, i beni più basati sulla domanda dei clienti aspirazionali oltre che i prodotti su cui si sente maggiormente il peso delle confusioni del mercato import-export: non a caso le difficoltà si sono fatte sentire soprattutto negli USA. A peggiorare la situazione, la complessità crescente nelle supply chain e la lentezza dei negoziati commerciali tra USA e UE. Meglio è andato il retail selettivo, che comprende Sephora e DFS, calato del 1% su base organica. Anche i ricavi nel settore profumi e cosmetici, che include marchi come Parfums Christian Dior e Guerlain, sono scesi del 1%. Le vendite nella divisione orologi e gioielli sono rimaste stabili, rendendola la più resistente del trimestre.
Uno degli elementi più critici per LVMH resta il rischio tariffario legato alla guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina. Sebbene il gruppo sia relativamente protetto rispetto ai concorrenti, grazie a margini elevati e alla produzione parzialmente localizzata negli USA, l’impatto sulle vendite è tangibile. L’instabilità politica americana, sommata all’inflazione e alla pressione sulle valute, rende difficile ipotizzare una ripresa a breve termine. E anche l'idea di rilocalizzare la produzione in America è bella in teoria ma non eccellente in pratica: in America i costi sono molto più alti e gli operai molto meno esperti, commettono errori, sprecano materiali e producono borse al di sotto degli standard qualitativi francesi. Tanto più che, come emerso da un’indagine di Reuters di qualche giorno fa, produrre le borse in America equivale a bruciare soldi dato che la fabbrica texana del gruppo è una delle peggio performanti di tutte. Come si legge nell’articolo: «Gli errori commessi durante il processo di taglio, preparazione e assemblaggio hanno portato allo spreco di ben il 40% delle pelli, ha dichiarato un ex dipendente con una conoscenza dettagliata delle prestazioni della fabbrica. A livello industriale, i tassi di scarto tipici per gli articoli in pelle sono generalmente del 20%».
@itslaurendeleon Louis Vuitton’s Texas factory is a timely example of the challenges of US manufacturing. If factories cannot handle lower run production after 6 years, it doesn’t bode well for large scale domestic manufacturing #greenscreen original sound - Lauren
Ad ogni modo, LVMH ha annunciato che risponderà alla situazione provando a contenere i costi e facendo investimenti mirati. I prossimi trimestri, poi, dovrebbero svelare la nuova creatività di diversi brand-chiave anche se, un po’ come nell’universo Marvel dopo Endgame, tra Jonathan Anderson, Hedi Slimane, Stella McCartney e Kim Jones il gruppo pare aver perso tutti i suoi super-eroi. In attesa dei nuovi debutti, si spinge sul marketing – specialmente con le mostre immersive in Asia dove, però, pare che si guardi molti e si compri poco. Ma ora all’orizzonte c’è una nuova e inquietante sfida: come spiegato su Investing, infatti, Morgan Stanley hanno declassato le azioni del gruppo e hanno previsto un ulteriore calo nel secondo semestre – se questo dovesse verificarsi sarà la prima volta in trenta lunghi anni che il gruppo affronta una decrescita per quattro mesi consecutivi. Forse il vento sta decisamente cambiando.