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Qual è il futuro degli show Cruise in Italia? Un format vecchio che in tempi di crisi deve giustificare la sua esistenza

Chanel sul Lago di Como. Pucci a Portofino. Gucci a Firenze. Dior a Roma. Max Mara a Caserta. Dolce&Gabbana nel cuore stesso della Città Eterna. Il calendario di sfilate Cruise/Resort 2026 (o nel caso di Dolce&Gabbana di show Alta Moda) che normalmente trascinano l’intero caravanserraglio della moda da un paese all’altro quest’anno si è concentrato sull’Italia – e l’unico dei grandi brand che la presenterà fuori dall’Italia, Louis Vuitton, lo farà comunque ad Avignone, e cioè non troppo lontano. Ben lontano da Rio de Janeiro, Barcellona, La Jolla, Hong Kong o altre città degli scorsi anni. Per quanto in questo calendario Cruise possa essere letta un’ode all’Italia, la decisione di non muoversi troppo in là, limitando gli spostamenti di team, buyer, giornalisti e clienti VIP nelle classiche mete turistiche italiane potrebbe rispondere a logiche di convenienza logistica ed economica. Dopotutto, il lusso è in crisi. Ma non serve farsi ingannare: «Non possiamo fare i conti in tasca a nessuno», ci ha detto M., analista e consulente per diversi brand che ha voluto restare anonimo, «i budget sono forse inferiori rispetto a quando Fendi ha sfilato sulla Muraglia Cinese [lo show risale al 2008, ndr] ma molto spesso uno show Cruise implica investimenti secondari come donazioni, finanziamenti per restauri, collaborazioni con realtà locali che fanno lievitare i costi al di là della mera logistica e dell’accomodation per gli invitati». Come ci fa notare M., annunciando la location del proprio show Cruise a Firenze, Gucci ha anche parlato di contribuzioni al budget dell’Estate Fiorentina 2026 e al progetto di riqualificazione del Parco delle Cascine. Ma anche lui ha avuto l’impressione che quest’anno «nessuno abbia voluto andare troppo lontano, magari non per mancanza di fondi, ma per un clima di maggiore prudenza che si sta respirando in questi mesi. I brand italiani giocano in casa e per quelli stranieri il nostro paese ha qualcosa di rassicurante». Nel mezzo della crisi delle vendite, il sogno rappresentato dagli show Cruise è ancora centrale per i brand – ma quanto a lungo potrà rimanerlo?



Ognuna di queste sfilate offre molto più che semplici abiti. Sono eventi culturali curati nei minimi dettagli, che sottolineano la continua convergenza tra artigianato, patrimonio e branding di lusso che solo l’Italia può rendere possibile e plausibile. Detto questo, non è un caso che quasi tutti i brand menzionati producano e investano moltissimo in Italia. Sono atti di narrazione e di diplomazia culturale monumentali e multi-livello e, nel caso di certi brand, rappresentano anche un legame di continuità con narrative più ampie: gli archivi storici per Gucci, il mondo delle vacanze bon-ton per Chanel e Pucci, la propensione di Max Mara verso architetture grandi e solenni e quella di Dior per residenze e giardini aristocratici, quasi che la nobiltà sia trasferibile per osmosi. Gli specialisti di sfilate scenografiche in Italia sono Dolce&Gabbana, i quali dal 2012 portano ogni anno le sfilate di Alta Moda, Alta Sartoria e Alta Gioielleria nelle più leggendarie location della penisola - un Grand Tour che culminerà tra poche settimane a Roma. Una cosa molto interessante che il brand fa è presentare le tre collezioni nel raggio di pochi giorni, mantenendo alta l’intensità dell’evento e azzerandone la dispersione geografica. «Oggi l’attenzione è la vera moneta», spiega M. «La forza del loro format è aver costruito una formula chiara e coerente. Non solo luoghi iconici, ma narrazioni pop, attivazioni urbane, cast di star che parlano a un pubblico ampio». 

@gucci Past meets present #GucciCruise26 original sound - Gucci


È già da qualche anno che gli show Cruise hanno perso l’incisività che ebbero nel primo periodo post-Covid. «Per me la svolta fu nel 2023», continua M., «quando Louis Vuitton e Dior fecero due show a testa nel giro di qualche settimana. Dalla Corea del Sud al Lago Maggiore, dall’India al Messico. Anche Gucci sfilò a Seoul quell’anno, MaxMara in Svezia, Carolina Herrera in Brasile… sembrava un po’ arbitrario». Forse per questo, quest’anno si è preferito optare per tappe geograficamente contenute. Dopo la pausa forzata dovuta alla pandemia, i destination show delle grandi maison di moda sono tornati in auge, nonostante le diverse critiche legate al loro impatto ambientale e alla loro saturazione. Eventi che sembravano destinati a scomparire prima del lockdown hanno invece ripreso vigore, sostenuti da precise esigenze commerciali. «Il Cruise viene consegnato a ottobre [e resta fino a] giugno», spiegò tre anni fa Bruno Pavlovsky, presidente della moda di Chanel, al Financial Times, spiegando il peso crescente che queste collezioni avevano per i brand: arrivano nei negozi prima delle collezioni principali, rimangono sugli scaffali molto più a lungo e spesso le superano in termini di vendite.  Un tempo pensate esclusivamente per la clientela più facoltosa (Coco Chanel introdusse le collezioni Cruise nel 1919 per vestire le clienti, spesso americane, che si recavano in vacanza durante l’inverno sulla Riviera o in Florida) e presentate con show dedicati solo a essa, le sfilate Cruise sono diventate enormi eventi mediatici – ma la loro frequenza ne ha fatto cose abituali. «Al di là della mera quantità di sfilate e di lanci in un anno», dice J., consulente freelance di Parigi, «il fatto che il grosso del pubblico le sperimenti comunque attraverso uno schermo fa perdere quasi del tutto il fattore scenografico». Inoltre, sempre secondo J., con l’attuale clima socio-politico «vedere questa élite riunirsi in luoghi da sogno per uno show di venti minuti, suscita più invidia e indignazione che meraviglia – ovviamente però non è quello il target di quegli show, solo il loro pubblico». 



Rimane pur vero che, sul piano commerciale, l’importanza dei destination show per i brand è destinata a crescere. Anche se ormai, a questo punto, il pubblico tende ad accorgersi che «quando un brand si sente obbligato a organizzare un destination show assurdo per restare rilevante, bisogna chiedersi se la forza del marchio non sia diventata troppo dipendente dalla spettacolarizzazione», come fa notare J. «Se serve tutto questo per mantenere vivo l’interesse, è davvero ancora un successo oppure stiamo assistendo a una forma di affanno produttivo mascherato da potenza creativa?». Eppure, per molti brand, il ritorno sull’investimento è ancora convincente. Come raccontava Jing Daily l’anno scorso, riferendosi alla stagione precedente, cinque delle quindici sfilate più redditizie in termini di Earned Media Value erano presentazioni Cruise. Marchi come Gucci, Versace e Max Mara hanno ottenuto più visibilità online con le collezioni Resort rispetto alle loro proposte SS24. La natura aspirazionale degli show Cruise, unita all’unicità dell’evento, genera momenti che il pubblico non solo osserva, ma ricorda. Ma li ricorda? Secondo l’analista M. bisogna fare qualche distinzione: «Le interazioni sui social danno una fotografia numerica, ma non raccontano la profondità dell’impatto culturale», ci dice. «I dati dicono che lo show è stato visto, ma non dicono se è stato ricordato. La differenza è sottile, ma vitale. Lo show di Valentino a Trinità dei Monti [fu nel 2022, ndr] è stato memorabile non solo per influencer e copertura media, ma perché era culturalmente ancorato a Roma». E qui viene il punto: per rendere rilevante uno show, dicono entrambi i nostri intervistati, tra brand, location e collezione deve esserci un allineamento perfetto.



A tale proposito, M. cita come altro esempio di “allineamento perfetto” lo show di Fendi alla Fontana di Trevi nel 2016: c’era il senso di unicità dell’evento, il legame con Roma rinforzato dal finanziamento del brand ai restauri, lo spettacolo delle modelle che camminavano sull’acqua. Quelli meno allineati preferisce non citarli – ma dice che la caratteristica che li contraddistingue è «che non hanno risonanza fuori dalla bolla del brand e di chi ci lavora». Uscendo dall’Italia, il più bravo a indovinare e a dosare i propri destination show è Jacquemus. «Se ci pensi, tutti i brand usano sempre castelli e palazzi», dice J. «ma Simon [Jacquemus, ndr] è forse l’unico che ha sfruttato il vero paesaggio francese. Lo show nel campo di lavanda, quello nel grano o nella cava di sale, persino quello a Capri dell’anno scorso, parlano del territorio non dei suoi monumenti – è facile usare un castello della Loira, ma il vero connoisseur [non traduciamo qui il termine francese, che perderebbe, ndr] conosce i posti segreti che non sono sulla guida turistica». E qui veniamo al punto: giunti, nella rotazione delle location italiane, ad aver visitato un po’ tutti i luoghi più famosi d’Italia, le scelte di location famose ma un po’ inflazionate sembrano rispondere più a un automatismo estetico che a un reale slancio creativo. «Scegliere destinazioni famose senza un reale legame progettuale con il brand», conclude J. «rischia di rendere questi show cartoline senz’anima. Il pubblico avverte quando una location è scelta per bellezza e non per significato». Un destination show come quello di Gucci a Castel del Monte nel 2022, per esempio, era sì spettacolare ma «nella collezione non era riflesso né il tema astronomico né quello medievale ispirato dal castello – allora perché andare lì?», chiede M. 

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E dunque cosa servirebbe fare per renderle realmente rilevanti? Sicuramente rendere le location scelte, in questo caso l’Italia, davvero protagoniste. In tal senso sarebbe forse utile utilizzare luoghi diversi, più autentici rispetto alle classiche destinazioni per ricchi. Secondo i nostri intervistati bisogna anche provare a salire di livello, in parte facendo, secondo l’esempio di Dolce&Gabbana, delle sfilate dei veri e propri spettacoli di più giorni che coinvolgano anche la vita della città (M. cita lo show di Dolce&Gabbana a Ortigia come esempio, dove gli elementi delle processioni religiose e i costumi locali sono stati grandi protagonisti oltre ai soli abiti e le attivazioni cittadine che precedettero lo show SS24 di Gucci, che a causa della pioggia cambiò location) e in parte guardando all’esempio forse più “basso” dei vecchi show di Victoria’s Secret – non replicandone gli aspetti sgradevoli e oggettificanti emersi negli ultimi anni, ma studiando la maniera in cui «quegli show venivano guardati in streaming e in televisione, c’era musica, c’era fantasia e, anche quando non fossero approcciabili o democratici, erano godibili perché coinvolgevano il pubblico in una maniera felice». Insomma, forse il merito più grande degli show Cruise italiani potrebbe essere proprio quello di gettare un faro sui luoghi alternativi e “meno social” dell’Italia e riattivarne anche le community. «I brand devono decidere cosa vogliono ottenere da questi eventi», conclude M. «Se è solo una dimostrazione di forza o un’esperienza immersiva per clienti selezionati, allora va dichiarato apertamente. Ma non si può pretendere anche un impatto culturale profondo quando il giorno dopo si è già passati allo show successivo. L’iperproduttività toglie senso, anche quando c’è qualità».