
Perché la crisi del 2008 ha costretto l’industria del lusso a reinventarsi?
Un passato molto più vicino di quanto pensiamo
21 Gennaio 2025
Che cosa accadrebbe se una delle banche più potenti degli Stati Uniti dovesse fallire? È già successo nel settembre 2008 con il crollo di Lehman Brothers. Un colosso di Wall Street, fondato su debiti e promesse, che si dissolse nel giro di poche ore. La caduta di Lehman non fu solo il fallimento di una banca: divenne il simbolo del tracollo di un’intera epoca; la crisi nacque negli Stati Uniti, alimentata dal collasso del mercato immobiliare e dall’insostenibile espansione dei mutui subprime. Il fallimento di istituzioni finanziarie di rilievo (come Lehman Brothers) trascinò l’economia globale in una recessione profonda, i cui effetti si abbatterono rapidamente anche sul settore del lusso. Prima di quel fatidico autunno, infatti, il lusso viveva un periodo d’oro. La caduta di Bear Stearns, nel marzo 2008, non aveva fatto vacillare marchi come Gucci, Saint Laurent e Balenciaga, che espandevano il loro raggio d’azione aprendo nuovi punti vendita in location prestigiose. Negli Stati Uniti, Michelle Stein, allora presidente di Aeffe, firmava contratti per boutique in aree iconiche come Melrose Avenue, a Los Angeles. L’estate 2008 era stata caratterizzata da una domanda in crescita, con i conglomerati del lusso impegnati a soddisfare le richieste dei consumatori aspirazionali, che riempivano le boutique. Ma la tempesta colpì anche la bolla del lusso.
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Le vendite crollarono soprattutto tra i VIC, che tagliarono drasticamente le spese a causa dell’incertezza economica. Saks Fifth Avenue, storico department store di New York, fu tra i primi a reagire introducendo sconti fino all’80% già prima di Natale. Questa mossa minò il posizionamento dei marchi di alta gamma, per i quali l’esclusività rappresenta un valore cruciale. Articoli che fino a pochi mesi prima incarnavano uno status symbol divennero merce da saldo: voci non ufficiali riportano borse di design, come quelle di Jil Sander, passate da 3mila a 300 dollari, scardinando l’immagine di intoccabilità del lusso. Un’industria che aveva prosperato in un’era di crescita ininterrotta si trovò impreparata a una scossa di tale magnitudo. L’ondata di sconti, sebbene necessaria per svuotare i magazzini, si rivelò un colpo per l’intero settore. Molti brand iniziarono a rinegoziare contratti di locazione onerosi e a ridurre gli ordini ai fornitori, spesso piccole aziende familiari italiane. Gucci Group, allora guidato da Robert Polet, convocò riunioni straordinarie per prepararsi a una contrazione del fatturato fino al 10%. Nonostante gli sforzi per sostenere la filiera, molte fabbriche furono costrette a chiudere, evidenziando la fragilità delle piccole imprese in un contesto di crisi globale.
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— eden berzatto (@astralcenter) December 29, 2023
Nel 2009 il gruppo Richemont registrò un calo del fatturato del 4% attestandosi a 5,2 miliardi di euro, mentre l’utile netto scese del 18% a 603 milioni di euro. Mentre molti gruppi vedevano i loro ricavi in diminuzione, Valentino riportava un fatturato consolidato di 2.2 miliardi di euro nel 2008, in crescita del 3% rispetto all’anno precedente. Questo dato rifletteva un cambio di rotta verso brand più istituzionali e meno logati, che iniziavano a catturare l’attenzione di consumatori sempre più esigenti, accelerando un cambio di stile e strategia nei marchi di lusso. La logomania, fino ad allora simbolo distintivo, lasciò il passo a un’estetica più sobria e raffinata. Si adottò il concetto di "luxury shame,” una visione del lusso che rinunciava all’ostentazione per concentrarsi su qualità e discrezione, esprimendo valore senza bisogno di gridarlo. Ispirandosi a Bottega Veneta e al suo motto «Quando le tue iniziali sono sufficienti», Gucci trasferì dirigenti chiave di merchandising e marketing da Bottega Veneta, tra cui l’ex CEO Patrizio di Marco.
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— ? (@maximalistes) January 12, 2016
Se i colossi del lusso cercavano di risollevarsi senza perdere la loro esclusività, decine di designer emergenti e indipendenti si stavano sgretolando. Così, per salvare la nuova generazione, nacque la Made Fashion Week, ideata dal produttore Keith Baptista, Mazdack Rassi, co-proprietario di Milk Studios, e Jenné Lombardo - un evento che si svolse durante la New York Fashion Week, con un weekend di sfilate e presentazioni ai Milk Studios. Made Fashion portò un approccio fresco, invitando persino influencer che, a quell’epoca, non erano mai stati presenti alle sfilate. Acquistata da IMG nel 2015, Made aiutò la New York Fashion Week a vivere un breve periodo di innovazione, trasformandola in un punto di riferimento per i talenti emergenti. Negli anni successivi, Made contribuì a lanciare marchi come Altuzarra, Proenza Schouler, Public School, Billy Reid e Alexander Wang.
L’autunno del 2008 segnò una svolta epocale per l’industria del lusso. I grandi marchi iniziarono a prendere il controllo diretto delle loro reti distributive, riducendo la dipendenza dai modelli wholesale. Assunsero i propri venditori nei department store e centralizzarono le strategie di pricing e merchandising, cercando di ricostruire la percezione del lusso come un bene esclusivo e intangibile. La crisi economica del 2008 comportò una ristrutturazione inevitabile per tutti i settori dell’economia, e il mercato del lusso, uno dei motori principali dell’economia italiana, non fece eccezione. Sebbene il lusso fosse stato oggetto di una “democratizzazione” nei decenni priori, rendendo i suoi prodotti più accessibili e abbassando i prezzi per attrarre una clientela più ampia, la crisi mise a dura prova questo equilibrio.
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Le aziende del lusso dovettero affrontare la difficoltà di mantenere il carattere elitario del brand pur rispondendo a una domanda sempre più ampia. Al contempo, il cambiamento nei comportamenti dei consumatori evidenziò come anche le fasce più ricche avessero ridotto i propri acquisti. Nonostante ciò, marchi come Louis Vuitton e Gucci si dimostrarono più resistenti grazie alla loro forte presenza internazionale e a strategie mirate. Il mondo del lusso, dopo il 2008, ha subito altre scosse, come quella dovuta alla pandemia del 2020, che portò alla chiusura definitiva di Barneys New York, dichiarato bancarotta. Tuttavia, negli ultimi anni il settore ha risposto in maniera molto più celere, spostando l’attenzione sui propri e-commerce e dimostrandosi più preparato.
In risposta alla crisi del 2008, le aziende del lusso ampliarono la loro base di clientela includendo nuovi segmenti come i consumatori “escursionisti,” ovvero quelli più distanti dal mercato del lusso tradizionale ma comunque interessati ai prodotti più accessibili. Questo, unito a una strategia di internazionalizzazione, consentì di combattere gli effetti negativi della recessione. I brand guardarono ai mercati emergenti - in particolare a quelli asiatici con una forte attenzione alla Cina - dove la domanda di lusso continuava a crescere. In questo contesto, è significativo il caso di Prada, che decise di quotarsi a Hong Kong nel 2011 anziché a Piazza Affari. Questa scelta strategica rifletteva l’importanza crescente del mercato asiatico e in particolare cinese, dove i consumatori rappresentavano una quota sempre più rilevante delle vendite globali. Purtroppo però, 17 anni dopo, anche quel mercato che sembrava irremovibile ha ceduto alle forti pressini socio-economiche, causando così una crisi del lusso comparabile solo a quella del 2008.