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Quando Prada provò a creare un gruppo del lusso italiano

Una lunga e problematica saga che ebbe al centro Jil Sander ed Helmut Lang

Quando Prada provò a creare un gruppo del lusso italiano Una lunga e problematica saga che ebbe al centro Jil Sander ed Helmut Lang

Per tutto il weekend si sono rincorse ipotesi e teorie sul rumor della possibile acquisizione di Versace da parte del Gruppo Prada. Un’unione che metterebbe sotto lo stesso tetto due brand leggendari, segnando il ritorno del Gruppo all’espansione dopo la complicata saga che, nella prima metà degli anni 2000, vede il Gruppo acquisire un gran numero di grandi nomi del minimalismo anni ’90 salvo poi rivenderli pochi anni dopo in un garbuglio di situazioni e contrasti tra designer e uomini d’affari che condusse lo stesso Patrizio Bertelli a dire anni dopo: «Ho fatto un errore con Jil Sander ed Helmut Lang». Se però il brand di Lang ebbe problemi per via di un direttore creativo sempre più restio a piegarsi alle logiche aziendali della moda, fu con Jil Sander che emersero tutte le sfide che un gruppo del lusso in via di definizione deve affrontare. Anni dopo la vicenda, fu Sander stessa a dire all’International Herald Tribune: «È stato un momento molto duro per me. […] Ho imparato presto quanto la moda possa essere profonda e difficile». Ma procediamo con ordine. Alla fine degli anni '90, Prada era reduce da una serie di grandi successi commerciali e si espanse aggressivamente per competere con LVMH, che già all’epoca era enorme ma non enorme quanto oggi; e Gucci Group, ovvero l’antenata di Kering. Tra le acquisizioni principali ci furono il 51% di Helmut Lang per 40 milioni di dollari, il controllo totale di Jil Sander per 105 milioni di dollari, Church’s per 170 milioni di dollari ma anche Alaia e Genny. Prada formò inoltre una joint venture con De Rigo per la produzione di occhiali e, insieme a LVMH, acquisì una quota di maggioranza in Fendi, contribuendo con 241,5 milioni di dollari a un affare del valore complessivo di 520 milioni di dollari. Ma le difficoltà finanziarie di Fendi e i debiti accumulati iniziarono a mettere sotto pressione le risorse di Prada che rimase fortemente indebitata, portandola a pianificare un’IPO nel 2001, successivamente annullata dopo i fatti dell'11 Settembre. Entro il 2007 il sogno di un gruppo del lusso  italiano era sfumato: Prada si era liberata di Jil Sander, Helmut Lang e Alaia e aveva “messo in pausa” Genny per concentrarsi sulla stabilizzazione delle finanze mentre si recuperò dai debiti accumulati con l’operazione Fendi, vendendo partecipazioni parziali in marchi come Church's per alleviare la pressione finanziaria per anni. Ma come iniziò tutto?

L'estate del 1999 segnò una svolta nell’industria della moda: Jil Sander, designer di culto che aveva aperto il proprio brand trent’anni prima, annunciò di essere entrata in affari con Prada che aveva acquisito una quota di maggioranza nel suo brand. Come racconta WWDPatrizio Bertelli inseguiva Jil Sander da oltre tre anni sperando di farne la pietra angolare di un nuovo conglomerato del lusso. Nell’agosto 1999, dopo lunghe trattative, Prada acquisì il 75% delle azioni ordinarie di Jil Sander e il 15% delle azioni privilegiate. L'accordo segnò la nascita del primo gruppo di beni di lusso privato in Italia: Prada, Jil Sander, la joint venture con Helmut Lang, il produttore di occhiali De Rigo e una partecipazione inziale in Church’s. Sebbene i termini finanziari non fossero stati resi noti, gli analisti stimarono che Bertelli avesse pagato circa 110 milioni di dollari per il controllo della società. La decisione di Jil Sander di vendere fu motivata dal desiderio di garantire il futuro del marchio in un’era di consolidamento nell’industria della moda. Idealmente la designer avrebbe voluto concentrarsi esclusivamente sugli aspetti creativi, lasciando a Prada la gestione operativa e la crescita strategica dell’azienda. Sander mantenne il ruolo di CEO e la direzione creativa mentre Bertelli assunse la presidenza del consiglio di sorveglianza. Un’area chiave di interesse della partnership era la produzione degli accessori di Jil Sander, che all’epoca rappresentava meno del 3% delle vendite complessive ed era in prodottaa in licenza con Goldpfeil, un’azienda tedesca in difficoltà. L’integrazione nell’ecosistema Prada, che privilegiava il controllo diretto su produzione e distribuzione, le offriva l'opportunità di espandere il settore accessori fino al 20-30% delle vendite complessive.

L’acquisizione faceva parte di una strategia di espansione più ampia orchestrata da Bertelli. Oltre a Jil Sander, Helmut Lang e De Rigo, Bertelli andò aumentando la propria partecipazione in Church's ed esplorò collaborazioni con altri brand. Ma diverse cose non funzionarono: oltre al problematico Fendi, infatti, anche un tentativo di collaborare con Gucci nel 1998 fallì, costringendolo a vendere il 9,5% delle sue azioni del marchio a LVMH per 140 milioni di dollari. Ma anche la collaborazione con Sander non iniziò benissimo: anche se i report iniziali parlavano di una crescita del 16% e profitti per 4,2 milioni di dollari nel 2000, Sander, nota per i suoi standard inflessibili e la sua indipendenza creativa, entrò in conflitto con lo stile di gestione e la visione strategica di Bertelli. La tensione culminò nel gennaio 2000, quando Jil Sander lasciò improvvisamente la sua azienda per questioni legate, come si dice, alla strategia di taglio radicale dei costi che Bertelli voleva implementare. La notizia scioccò il mondo della moda, poiché molti credevano che l’identità del marchio fosse profondamente legata al tocco personale di Sander. In quell’occasione Bertelli disse: «Un marchio forte come Jil Sander non ha bisogno di affidarsi al nome di uno stilista. Non è il nome che conta, ma la qualità del prodotto». Per poi nominare Milan Vukmirovic, ex-buyer della boutique parigina Colette, come direttore creativo. La reazione della stampa fu, in una parola, ostile – Sander era allora ed è ancora una designer amatissima, rispettata fino alla venerazione e l’idea di dissociarla dal brand che portava il suo nome dal 1968 fece arrabbiare la stampa e il pubblico. Lo scalpore mediatico diventò presto un problema di vendite.

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Bertelli progettò di finanziare queste acquisizioni tramite un'IPO, prevista per settembre 2001. Tuttavia, il tempismo si rivelò disastroso. Gli attentati dell’11 settembre scatenarono una crisi economica globale, causando un crollo nel mercato dei beni di lusso. Prada fu costretta a ritirare la sua offerta pubblica iniziale, ritrovandosi con un debito di 1,7 miliardi di euro, una cifra pari al suo fatturato annuale dell’epoca. Alla fine del 2001, l’azienda si trovava in una posizione finanziaria precaria, con la sua ambiziosa strategia di crescita bloccata. Nonostante le difficoltà, Bertelli rimase risoluto. Giustificò l’elevato livello di debito dell’azienda attribuendolo alle acquisizioni piuttosto che a una cattiva gestione. Bertelli spiegò: «Il nostro debito non è dovuto a una cattiva gestione o a perdite operative. Abbiamo effettuato una serie di acquisizioni, e l'IPO era destinata a finanziare questi programmi. Nessuno era preparato per l'11 settembre». Negli anni successivi, l’azienda lavorò per ristrutturare le sue finanze. Bertelli prevedeva che il debito di Prada sarebbe stato dimezzato a meno di 1 miliardo di euro entro la fine del 2004. Tuttavia, il rafforzamento dell’euro rappresentò un’altra sfida, rendendo i beni di lusso europei più costosi per i consumatori americani. Nel luglio del 2002, Prada acquisì il restante 25% di Jil Sander, consolidando così il controllo totale sul marchio dopo aver acquistato il 75% due anni prima. Questa acquisizione diede a Prada il pieno controllo operativo e strategico del brand, ma fece emergere tutte le difficoltà di gestire un cult brand senza la fondatrice originaria. 

Nel 2003, a causa di fatturati stagnanti e perdite crescenti, il Gruppo Prada fu costretto a richiamare Jil Sander al timone creativo. Nonostante il ritorno della fondatrice, i problemi finanziari persistevano: nel 2002 il marchio aveva registrato ricavi per 138,8 milioni di euro, ma con una perdita netta di 26,3 milioni di euro. Nel 2003, anche con la presenza di Jil Sander, il brand non riuscì a invertire la tendenza negativa, continuando a soffrire un calo di redditività e una percezione di perdita dell'identità stilistica da parte del pubblico e degli esperti del settore. Il brand, che all’epoca era posizionato nella fascia alta del mercato accanto a Hermès e addirittura sopra brand come Gucci e Prada, come spiegava all’epoca MF Fashion, sembrava perdere progressivamente il suo status. Nel 2004, la separazione definitiva tra Jil Sander e Prada avvenne a seguito di divergenze strategiche e finanziarie: anche se Bertelli e Sander parevano riconciliati, la designer restava inflessibile nel suo voler operare senza un budget fissato – secondo il New York Times c’erano anche problemi relativi ai compensi e agli investimenti del Gruppo nel brand. Secondo fonti dell’epoca, la designer si sarebbe rifiutata di approvare un piano aziendale che prevedeva tagli aggressivi ai costi che però erano necessari perché l’azienda era in rosso.

Quando Jil Sander lasciò definitivamente il marchio, l’azienda registrava una perdita di 30,6 milioni di euro. Come ricordò WWD all’epoca simili problemi erano emersi anche tra la famiglia Pinault e il duo Tom Ford-Domenico De Sole portando poi all’uscita dei due da Gucci. A peggiorare la situazione, nel 2005 il Gruppo Prada annunciò perdite complessive di 42 milioni di euro, nonostante la crescita a doppia cifra delle vendite per Prada e Miu Miu. Le difficoltà di Jil Sander e Helmut Lang avevano avuto un impatto sulle finanze del gruppo che infatti doveva barcamenarsi tra le vagonate di soldi che venivano dai propri brand e l’emorragia finanziaria rappresentata dalle acquisizioni, ormai divenute una zavorra. Patrizio Bertelli tentò di rassicurare gli investitori, annunciando un piano di ristrutturazione e l’intenzione di aumentare i ricavi grazie ai marchi principali, ma la situazione rimase critica. Nel 2006, Jil Sander riportò ricavi di 130,4 milioni di euro, ma con perdite nette che ammontavano a 37,3 milioni di euro. Nel corso degli anni successivi, il marchio accumulò perdite che superarono complessivamente i 137 milioni di euro e ricavi che non riuscirono mai a tornare ai livelli registrati nel 2000. Alla fine, il Gruppo Prada decise di vendere Jil Sander nel 2006 a Change Capital Partners, un fondo di private equity con sede a Londra che lo avrebbe poi venduto al gruppo OTB che ancora lo detiene e lo ha portato a una nuova fase di prosperità dopo anni e anni di incertezza. A meno di tre mesi dopo dalla vendita di Sander (che era andata via dal brand due mesi prima del congedo di Lang) il gruppo vendette Lang (Forbes decise di titolare con il verbo «disposes of…» come se fosse un cadavere) e un anno dopo, nell’estate del 2007, Azzedine Alaia comprò indietro il suo brand dal gruppo. Il sogno di un conglomerato di lusso italiano sotto l’egida del Gruppo Prada pareva essere finito ma proprio la decisione di concentrarsi sui propri brand fu ciò che in definitiva salvò l’intero gruppo che ha mantenuto più o meno il medesimo assetto che aveva all’epoca e oggi è diventato uno dei pochi ancora in robusta crescita nel mezzo di una profondissima crisi del lusso.