Vedi tutti

Di chi è la legacy dei legacy brand?

Tom Ford è solo l’ultimo caso

Di chi è la legacy dei legacy brand? Tom Ford è solo l’ultimo caso

Ieri Tom Ford ha annunciato l’uscita della sua ultima collezione, un canto del cigno che conteneva tutti i suoi migliori design degli ultimi 13 anni, prima del suo definitivo ritiro dal brand. Nel corso di questi 13 anni Ford ha costruito un notevole e redditizio impero che, adesso, continuerà a esistere senza di lui con il supporto degli investitori che se ne sono spartiti le tre principali regioni: Estèe Lauder i cosmetici, Marcolin gli occhiali e il Gruppo Zegna l’abbigliamento. Questi tre investitori producevano già le collezioni di Tom Ford praticamente da sempre e dunque adesso una certa continuità sarà garantita, tanto più che si dice che lo storico direttore del menswear Peter Hawkings dovrebbe assurgere a nuovo direttore creativo. Non di meno, quello di Ford è il caso più recente di un founder che lascia il brand che porta il suo nome e che, in sostanza, cede ad altri i diritti commerciali di quest’ultimo. Questo fenomeno non è assolutamente nuovo nella moda: Louis Vuitton, Chanel, Dior e Saint Laurent sono soltanto alcuni dei brand storici che sono sopravvissuti ai propri founder, portando avanti i loro nomi nel tempo. Non di meno, quando ci avviciniamo al presente le cose si complicano, specialmente quando il founder di un brand è vivo e vegeto ma è privo dei diritti del suo nome – Jil Sander e Tom Ford sono esempi perfetti, così come anche Thierry Mugler e John Galliano (i diritti di quest’ultimo li ha LVMH ma la produzione è interrotta da decenni) ma anche Martin Margiela. Fino a qualche tempo fa, anche Ann Demeulemeester faceva parte di questo club ma l’acquisizione del brand da parte di Antonioli, amico della designer e della sua famiglia, ha creato un rilancio che, anche senza il coinvolgimento diretto della founder, si svolge comunque sotto i suoi auspici e il suo tacito assenso.

Il caso più strano di tutti, comunque, rimane quello di Karl Lagerfeld il cui nome, oltre che a Chloé, Fendi e Chanel, è legato anche a un brand eponimo che nel tempo si è trasformato in una sorta di merch del designer scomparso con tanto di pupazzi a tema. Se quando Lagerfeld era vivo il contrasto tra Chanel e il suo brand era quanto mai stridente, specialmente considerando come il brand avesse trasformato l’immagine del designer in una sorta di mascotte per bambini, il fatto che il brand continui a produrre abiti con loghi all-over, ricami col nome “Karl” e ogni sorta di prodotti che recano la caricatura delle fattezze del designer è semplicemente strano. Il tipo di contraddizione che esiste qui, e che altri hanno evidenziato in passato, è che Lagerfeld in vita sua diceva cose come «I pantaloni della tuta sono un segno di sconfitta» quando il suo brand produce ancora pantaloni della tuta con il suo cognome gigantografato addosso. E se in tantissimi casi, come in quello di Margiela, i nuovi proprietari hanno mostrato rispetto, eliminando il nome del designer dal logo, ad esempio, e producendo collezioni nello spirito del proprio founder lavorando con un designer come Galliano, in altri le cose sono andate molto diversamente. Un teenager o ventenne di oggi, ad esempio, identificherà Helmut Lang come un brand che produce hoodie e t-shirt logate, senza sapere che fino al 2004 Helmut Lang era uno dei più importanti nomi del mondo della moda e, soprattutto, che non avrebbe mai e poi mai prodotto capi logati

@steffieinthecity Karl would never #handbags #fashion #fashiontok #karllagerfeld #trending #shopping What is Dis Huni - Brian Morr

Questi e altri casi dimostrano tristemente come spesso trasformare il nome di un founder in un marchio commerciale possa dimostrarsi redditizio con l’ovvio rischio che tutto ciò che aveva reso iconico questo o quel brand venga diluito e commercializzato allo sfinimento – fino al punto in cui il brand in questione diventa del tutto irriconoscibile. Raf Simons, conscio di ciò, ha chiuso il suo brand una volta per tutte così da evitare che il suo nome venisse resuscitato sotto forma di “fashion zombie”. Diventare un fashion zombie non aiuta mai il prestigio del brand stesso: di recente Timothée Chalamet ha indossato sul red carpet un gilet della SS98 di Helmut Lang, un pezzo che a ogni buon conto può considerarsi degno del migliore collezionista, ma nessuno stylist sano di mente gli avrebbe fatto indossare un abito del nuovo Helmut Lang. Alla stessa maniera al prossimo Met Gala dedicato al lavoro di Lagerfeld siamo certi di vedere un gran numero di abiti di Chanel e Fendi, anche di Chloé, ma saremmo estremamente sopresi (per non dire scioccati) se qualche ospite dovesse presentarsi indossando il brand eponimo di Lagerfeld. Una contraddizione tanto comprensibile quanto bizzarra che però ci porta a domandarci quale sia la ragion d’essere del brand al di là dei facili profitti specialmente considerando che la sua esistenza non gioca a favore della memoria del suo stesso founder.