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Le sfilate stanno diventando concerti?

La nuova tendenza della fashion week è lo show nello show

Le sfilate stanno diventando concerti? La nuova tendenza della fashion week è lo show nello show

Nella lingua italiana e in quella francese, la presentazione dal vivo di una collezione di moda è detta “sfilata” e “défilè”, termine a sé stante che separa questa occasione dal puro spettacolo. Così non è nella lingua inglese, in cui il “fashion show” viene sempre più inteso come uno “show” vero e proprio  che come "presentazione visuale" – e cioè non come un’occasione in cui i modelli della nuova collezione vengono passati in rassegna da buyer, stampa, clienti e celebrity ma come un’occasione di intrattenimento in senso stretto. Gli ospiti dello show di Gucci, Saint Laurent e Louis Vuitton, ad esempio, sarebbero stati indecisi quest’anno se osservare da vicino i modelli che sfilavano o se seguire le esibizioni degli artisti musicali che provvedevano al sottofondo musicale – specialmente nel caso in cui la performance in questione includeva mega-star come Rosalìa o Charlotte Gainsbourg al pianoforte. Un modello più originale, e ancora più ibrido, è stato quello di KidSuper che ha trasformato il proprio “fashion show” in “comedy show”, con Tyra Banks a guidare le proverbiali danze; un simile richiamo al mondo comedy è stato anche quello di Bianca Saunders che ha ambientato il suo show sullo sfondo della sitcom di culto Blouse and Skirt di Oliver Samuels. Da Dior invece, mentre i look della collezione venivano mostrati, c’era un video di Robert Pattinson e Gwendoline Christie che declamavano una poesia. Più classico, invece, Kenzo che ha avuto un quartetto d'archi che suonava cover dei Beatles mentre lo show proseguiva. E anche se l’esibizione dal vivo di un artista a una sfilata non è cosa inaudita (esempio illustre e casuale fra mille, l’esibizione di Florence Welch allo show SS12 di Chanel), l’adozione e rielaborazione del format come parte integrante o comunque strutturale delle sfilate fa pensare che anche per i brand stessi si stia passando dal “fashion” puro a ciò che altre pubblicazioni di settore hanno definito, in passato e in un altro contesto, “fashiontainement”.

Il picco del “fashiontainement” potrebbe essere già stato raggiunto da Balenciaga con il suo celebre meta-show de I Simpson, ma è forse con questa edizione della fashion week che il passaggio da semplice sfilata a show nel senso più ampio del termine si è diffuso tra i grandi brand commerciali. Il che porta a curiose scene come quella vista da Louis Vuitton dove Kodak Black, tra il pubblico, è stato ripreso ballare, del tutto intento ad ascoltare la performance di Rosalìa (eccellente, tra parentesi) e chiaramente meno interessato agli abiti veri e propri. Nel caso di Louis Vuitton, l’elemento della performance non solo musicale ma anche coreografica e acrobatica è un po’ un must delle ultime sfilate, basti pensare a come sia Tyler, The Creator che Kendrick Lamar abbiano rubato le scene durante le scorse fashion week. Né la presenza di famosi artisti alla sfilata è un grande problema in sé stesso – ma diventa sempre più chiaro che, se un brand vuole creare impatto, il format della sfilata moderna inaugurato più o meno con Helmut Lang (fu lui a rimuovere definitivamente la passerella intesa come “piattaforma sopraelevata” e far camminare i modelli di fretta sul pavimento) ha smesso di bastare. Al di là della spettacolarizzazione dello show in sé stesso, pensiamo ai grandiosi set di Lagerfeld per Chanel e allo show Diorent Express di John Galliano nel ’98 in cui un letterale treno a vapore divenne protagonista dello show, ma anche alle acrobazie e danze tipiche del Kenzo originale o divenute un marchio di fabbrica di Issey Miyake, avere un elemento esterno che può potenzialmente distogliere l’attenzione del pubblico dai vestiti stessi parla di un graduale cambiamento nel sistema in cui le collezioni vengono comunicate.

Se un tempo il pubblico specializzato doveva sedersi e osservare un look dopo l’altro, infatti, oggi il successo di una sfilata si calcola in base al suo media value – valore che la presenza di un performer può fare esplodere a prescindere dagli abiti che vengono mostrati. Se la sfilata fa notizia, il pubblico di tutto il mondo vedrà gli abiti; ma se gli abiti parlano, per così dire, per sé stessi la loro risonanza attraverso i feed e gli algoritmi social sarà invece incredibilmente attutita. E questo non significa che gli abiti siano passati in secondo piano (tutti gli specialisti e specialmente i buyer vengono invitati ai cosiddetti re-see negli showroom nei giorni successivi) ma che il momento dello show per un brand, specialmente se di alto profilo, è diventato un’occasione di capitalizzare e accumulare prestigio, flexando le proprie connessioni alla cultura pop, ma anche immergendo i propri clienti in una narrativa che può essere attinente al già citato prestigio pop o che può invece riferirsi alle “destinazioni d’uso” del brand stesso – già da qualche stagione ad esempio gli outing più rilevanti di 44 Label Group sono i rave che organizza e meno le sfilate in senso stretto. Il che, ovviamente, riflette la maniera in cui in un mercato dell’abbigliamento e del lusso ormai iper-saturi la maniera di primeggiare sui rivali sia non solo fare più rumore di loro, ma anche di farlo meglio, chiamando un’artista di grido. Questo giro, i vincitori sono decisamente Louis Vuitton e Saint Laurent – ma un giorno o l’altro qualcuno farà esibire una band di K-Pop durante il proprio show e vedremo riscritta la definizione di “rompere l’Internet”.