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I brand di moda stanno contribuendo alla distruzione della foresta Amazzonica?

Secondo uno studio condotto da Stand.earth, LVHM e Inditex mentono sulle loro politiche aziendali

I brand di moda stanno contribuendo alla distruzione della foresta Amazzonica? Secondo uno studio condotto da Stand.earth, LVHM e Inditex mentono sulle loro politiche aziendali
Credits: @kevinarnoldphoto
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Dopo le immagini delle discariche a cielo aperto per gli abiti usati di mezzo mondo del Deserto di Atacama e di Al Jazeera, persino le grandi catene fast fashion hanno lanciato campagne sulla sostenibilità, ma forse più per discolparsi moralmente agli occhi dei consumatori piuttosto che per un reale desiderio di cambiamento, come dimostra il recente studio condotto da Stand.earth e riportato dal The Guardian, un'approfondita analisi sulle complesse catene di approvvigionamento globali dell'industria della moda e su come i grandi marchi, tra cui Coach, LVMH, Prada, H&M, Zara, Adidas, Nike, New Balance, Teva, UGG e Fendi, contribuiscono massivamente alla deforestazione nella foresta pluviale Amazzonica. Il presidente del Brasile Jair Bolsonaro inoltre ha rimosso con la forza i popoli indigeni, cacciando le tribù dalla foresta che per secoli è stata la loro dimora, per far posto all'agricoltura, all'estrazione mineraria e ad altre attività di sviluppo.

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Il rapporto ha analizzato quasi 500.000 righe di dati doganali e ha scoperto che più di 50 marchi sono collegati al più grande esportatore di pelle brasiliano, JBS, tra i principali responsabili della deforestazione dell'Amazzonia. Nonostante le molteplici politiche in atto i brand riescono comunque ad aggirare le regole o ad ignorarle continuando a sfruttare le risorse del pianeta a ritmi serrati: "Il tasso di deforestazione è in aumento, quindi le politiche non hanno alcun effetto materiale", ha affermato Greg Higgs, uno dei ricercatori coinvolti nel rapporto. Ci sono concrete probabilità che ogni singolo capo di abbigliamento provenga da allevamenti di bestiame in Amazzonia, altra causa della deforestazione nell'area. Delle 84 aziende analizzate dal rapporto, 23 avevano politiche esplicite contro deforestazione, sulla base dei dati rilevati i ricercatori ritengono che esse stiano dunque violando le proprie politiche, tra queste il gruppo LVMH, nonostante all'inizio di quest'anno il marchio si sia impegnato pubblicamente a proteggere la regione vulnerabile con l'Unesco. Mentre ha fatto scalpore il caso di Coach, portato all’attenzione generale da @diet_prada, secondo cui i dipendenti dell'azienda avrebbero danneggiato volontariamente scarpe e vari accessori di lusso per dichiararli come merce danneggiata e risparmiare sulle tasse. 

Tra una transizione ecologica più difficile del previsto, greenwashing e sovrapproduzione, i marchi non dovrebbero sfruttare questo particolare momento storico non per contribuire alla deforestazione altrove, come in Guatemala o in Messico, ma investire ed esplorare alternative che non siano estrattive, trovare soluzioni alternative che non siano di origine animale, né a base di plastica: fibre ecologiche come la canapa, il cotone biologico e riciclato, il caucciù, lo juta e la ramia oppure alternative da laboratorio come il Tencel o il Lyocell, fino alle declinazioni più fantasiose come il Dessero, il tessuto vincitore dei LVMH Awards 2020 che si ottiene dagli scarti dei cactus o Nopal, pelle vegana estratta dal micelio, ovvero una parte che compone le radici dei funghi, brevettato da Bolt Threads e supportato da un consorzio formato niente meno che da Adidas, Kering, Lululemon e Stella McCartney per incentivare la produzione e la vendita. Dunque con i mezzi economici e i progressi della scienza i brand non hanno davvero più scuse per rimandere il cambiamento o per fingerlo.