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Il nuovo underground milanese: Rayon Vert

Il brand nato a Milano immagina un nuovo modo di produrre e vivere la moda

Il nuovo underground milanese: Rayon Vert Il brand nato a Milano immagina un nuovo modo di produrre e vivere la moda
Processo di produzione-acquisto, opzione 2
Processo di produzione-acquisto, opzione 1
Fotografo
Teo Poggi

La sostenibilità è diventato l'unicorno dell'industria della moda: tutti ne parlano, tutti la inseguono ma raggiungerla sembra ancora una fantasia ed esiste ancora un chiaro trade-off tra la profittabilità di un prodotto e il rispetto di standard etici a livello produttivo e di vendita. Si tratta di un'incoerenza palese che affonda le sue radici nei modelli di produzione e consumo contemporanei, in cui i prodotti sono sostituibili e poco duraturi e l'acquisto è stimolato da infiniti fattori che nutrono lo stesso rapporto tra utente e brand. Tra le rare realtà che hanno il coraggio di immaginare un futuro diverso c'è Rayon Vert, brand di ricerca fondato a Milano nel 2017  e oggi gestito da Yuri Kaban e Andrea Ferrari.

L'obiettivo Rayon Vert è quello di produrre vestiti ed accessori tecnici definiti da un'estetica, gorpcore-urbana seguendo un modello differente, liquido e leggero, quello dell'Open Manufacture. Descritto da Martijn Van Strien e Vera De Pont nell’Open Source Fashion Manifesto del 2016, questo modello di produzione cerca di includere il consumatore finale nella progettazione e realizzazione del prodotto, facendogli apprendere il processo di produzione e l'uso dei materiali e al contempo sovvertendo la classica linea produttiva capitalista, dove spesso sono la forza lavoro e i materiali usati a creare la marginalità per il profitto. 

Questo inedito modello di produzione sostenibile, insieme al rapporto tra moda e mondo underground a Milano sono stati gli argomenti dell'intervista esclusiva che uno dei founder di Rayon Vert, Yuri Kaban, ha discusso con nss magazine.

Com’è nato Rayon Vert? Chi siete e cosa a cosa vi siete ispirati?

Rayon Vert è nato da due amici che avevano il bisogno di avere vestiti e abbigliamento tecnico che incontrasse i loro gusti, sia estetici che tecnici. Da quel primo desiderio tutto è stato messo in discussione e si è evoluto negli anni così come le persone che hanno preso parte al progetto. Il punto di svolta fondamentale è stato l’incontro con l’ultralight backpacking e le ricerche di Pietro Fareri relative all’Open Manufacture che hanno indirizzato il brand nella direzione che ora sta percorrendo.

Rayon Vert propone un modello di produzione e consumo completamente diverso da quello che domina l’industria contemporanea. Quali sono i suoi meccanismi?

Si, crediamo nel perseguimento di una condizione in cui ognuno sia in grado di produrre i propri capi di abbigliamento e accessori, così facendo:

- Rendere obsolete le linee di produzione di bassa qualità supportando l'autoproduzione e le imprese locali.
- Stabilire una maggiore connessione tra gli utenti, i loro indumenti e attrezzature incoraggiandoli a ripararli e re-utilizzarli quando possibile.
- Trasmettere le conoscenze necessarie agli utenti per espandere il design dell'articolo in base alle loro esigenze.
- Ridurre l'impatto ambientale della produzione di massa.

Il modo più veloce per arrivare a una soluzione di questo tipo è quello di cercare il più possibile di abbattere il muro di apparente difficoltà che il cucito sembra avere. Dopodichè l’unica cosa necessaria è una macchina da cucire e istruzioni dettagliate su come realizzare ogni cosa nel modo più semplice possibile.

Processo di produzione-acquisto, opzione 1
Processo di produzione-acquisto, opzione 2

Perché credi che si sia giunti a un distacco così profondo nella moda tra produzione e consumatore finale? Non può trattarsi solo di tecnologia, in fondo cuciniamo a casa anche se la tecnologia ci permette di non farlo. 
Cosa è successo di diverso con la moda?

Questa è una domanda difficile. Mi viene da pensare che la differenza sostanziale tra il cibo e l’abbigliamento è che il primo ha a che fare con la nostra intimità, che viviamo nei nostri appartamenti, con le persone con cui scegliamo di condividerlo. Il secondo invece è il nostro guscio esteriore giudicabile da chiunque incrociamo per strada o online, e che di riflesso ci fa sentire più o meno sicuri. Forse è per questo motivo, per cui, se quando siamo da soli, ci permettiamo di saltare i pasti o mangiare cibo scadente, difficilmente usciamo di casa con vestiti che non ci piacciono. Credo sia più facile indossare dei vestiti che incontrano degli standard più o meno condivisi collettivamente, piuttosto, che qualcosa fatto da noi, e magari anche un po’ storto, che però ci rende vulnerabili al giudizio.

Vi considerate una realtà underground o controculturale?

Ci consideriamo underground per il nostro basso bacino di utenza attuale. Siamo una realtà piccola e i nostri canali e metodi comunicativi non hanno grande capillarità. Inoltre il fatto che la produzione dei nostri prodotti e contenuti sia gestita completamente da noi rende più difficile emergere dalla nostra nicchia di mercato. Non ci sentiamo controculturali nel senso che crediamo che le nostre scelte comunicative e produttive siano le eticamente più giuste nel 2020, ci sembra piuttosto controculturale non prendere posizione di fronte a problemi che attualmente sono al centro del discorso ecologico e umano.

Il discorso su sostenibilità e moda circolare è diventata la chimera dei grandi brand oggi, tuttavia come può un brand emergente essere inclusivo - a livello di prezzi - e sostenibile allo stesso tempo? 

Crediamo che un brand ad oggi possa tranquillamente generare introiti anche senza dover necessariamente vendere i propri prodotti fisici. I modi sono molti, dalle consulenze alle collaborazioni con altre realtà o tramite la didattica e la trasmissione del know-how. Il prodotto, nell’ambito moda e design, anche in passato è sempre stato il frutto di marketing e di un lavoro strutturato, mai solo il prodotto fine a se stesso. Quindi ci viene spontaneo pensare che non sia essenziale allo sviluppo di un brand.

Che ruolo ha avuto Milano nello sviluppo di RV e come vi immaginate la città nei prossimi 10 anni?

Il team di Rayon Vert è milanese al 90%, curiosamente tutti nati e cresciuti nella parte Est/Nord-Est della città. Ci viene da pensare che in qualche modo questo abbia contribuito. Non è stata però una scelta pensata ma più che altro un processo spontaneo che ha trasformato amicizie, in alcuni casi decennali, in rapporti lavorativi. Come ci immaginiamo la città nei prossimi anni? Peggio. Negli ultimi anni il processo di gentrificazione e aziendalizzazione degli organi comunali ha creato una città in cui vivere ha senso solo per chi ha molti soldi da spendere o per i turisti. Le recenti scelte amministrative non hanno tutelato minimamente chi la città la abita e non può far fronte all’impennarsi dei prezzi di affitti e beni di prima necessità.

A livello estetico l'industria della moda ha cannibalizzato molte sottoculture, oggi il gorpcore e l'estetica hiking stanno attraversando il loro momento. Come vive Rayon Vert questo genere di rapporto visto che si propone di essere un brand prettamente tecnico?

Abbiamo deciso di lavorare nel campo dell’abbigliamento tecnico perché è quello che ci diverte e troviamo ci sia una sfida maggiore dal punto di vista progettuale. Entrare in questo mondo da iniziali fruitori a produttori veri e propri è diventato spontaneo nel momento in cui abbiamo iniziato a praticare attività outdoor in modo più o meno seriale.

Che ora l’abbigliamento tecnico abbia il suo momento sotto i riflettori è indiscutibile, ma crediamo che negli ultimi venti anni si sia insinuato in modo piuttosto stabile e ormai imprescindibile, anche per pochi SKU, anche per i soli materiali, in ogni brand e ad ogni livello di prezzo.

Avete recentemente collaborato con IUTER per un workshop: quali sono i progetti per il prossimo futuro?

La nostra collaborazione con Iuter, di cui siamo molto soddisfatti, è stato un po’ il test di quello che vorremmo continuare a fare nel futuro, implementando tecniche, prodotti, macchinari e numero di partecipanti. Iuter ha messo a disposizione la propria azienda con i macchinari e i propri dipendenti e16 invitati che, pur non avendo mai cucito, hanno utilizzato lo spazio per creare ognuno un proprio zaino. Se l'evoluzione del lockdown lo permetterà vorremmo cercare di espandere il più possibile questo genere di progetti, cercando di arrivare al maggior numero di persone. Ovviamente lo spazio fisico è limitato ad una ristretta area di azione geografica. Stiamo cercando, e questo è il focus principale per il futuro, di estendere anche digitalmente quelli che sono i nostri obiettivi.