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L'hip-hop e la sua passione per i villain dei fumetti

Non solo Pusha-T e Joker, il rap si è sempre lasciato ispirare dai cattivi

L'hip-hop e la sua passione per i villain dei fumetti Non solo Pusha-T e Joker, il rap si è sempre lasciato ispirare dai cattivi

Immaginate di essere uno dei rapper più forti del pianeta e di voler scrivere l’album dell’anno ispirandovi a “Joker”, il film di Todd Phillips con Joaquin Phoenix, tando da riprodurlo costantemente in studio, senza audio, con il sottofondo dei beat e delle rime. È quello che ha fatto Pusha-T per “It’s Almost Dry”, il suo ultimo disco, un incastro perfetto tra la musica di King Push e l'anima del villain più celebre nel pantheon di Batman. Un lavoro raccontato dallo stesso rapper in un'intervista rilasciata a Complex: «[Watching 'Joker'] was helpful. What happened was, we would mute [the movie], and we’d be playing the music or the beat while it’s muted. You could see the motion and we’d be like, ‘Oh, that’s a marriage right there.’» Non solo Pusha-T ha ribadito il suo ruolo da protagonista nel rap game, ma ha ancora una volta sottolineato la passione dell'hip-hop per il mondo dei villain fumettistici in un rapporto che, ormai da anni, sembra essere diventato perfettamente simbiotico. Già in passato l'ex metà dei Clipse aveva impostato la sua carriera come quella del cattivo del rap americano, un personaggio costruito tanto con il suo carattere fuori dagli schemi quanto con il suo passato da spacciatore.  «A good villain exudes charisma and power,» aveva spiegato Pusha in un’intervista per SPIN del 2016. «He has principles though; that just gives him a level of dimension. It makes him seem to be a bit unpredictable, because he’s usually deemed as some type of evil, ruthless person and then he shows you his principles and you don’t know what to think of it.»

Ancor prima di Pusha-T, anche Kanye West si era lasciato affascinare dal Joker nella famosa chat in cui minacciava Drake, mentre più di una volta il rapper è stato definito come "villain" per il suo arco personale fatto di controversie e polemiche. Tolti gli esempi più recenti, in passato ci sono stati altri artisti rap che hanno reso la relazione con i villain una costante della loro arte. Tra questi, impossibile non citare, MF DOOM, uno dei personaggi più misteriosi del rap moderno grazie alla sua faccia sempre nascosta da una maschera ispirata a Doctor Doom, uno dei villain dei fumetti Marvel e storico rivale dei Fantastici 4. Riprendendo l’immaginario di una realtà fittizia, il rapper inglese si era completamente calato nella sua storia e proprio quella maschera argentata gli ha permesso di mantenere il controllo in tutta la sua carriera. «The DOOM persona felt as though it had emerged from the graveyard of rappers murdered by glam-hop,» scriveva Ta-Nehisi Coates nel 2009 su MF DOOM. Il legame tra il rap e degli alter-ego immaginari riconduce allo studio di queste personalità difficili da inquadrare in una sola categoria. Come MF Doom, anche Big Pun deve il suo nome a un anti-eroe dei fumetti com The Punisher, lo stesso si può dire per Methon Man che in molti casi sceglieva il nome di Ghost Rider se non addirittura L'Enigmista, mente Ja Rule aveva pensato di cambiare nickname con Loki lasciandosi ispirare dalla cultura supereroistica per creare un nuovo immaginario. Il rapporto tra i comics americani e il rap è diventato, con il passare degli anni, sempre più stretto e correlato tra loro. Due forme d’arte specializzate nello storytelling e nel ricreare mondi attraverso le parole e le immagini.

Essere un villain non significa per forza etichettarsi come una persona malvagia, ma vivere al limite seguendo sempre un codice d’onore. La parola “villain” deriva non a caso dal termine latino "villanus", che significa bracciante o lavoratore di una piantagione o di una villa. Ogni persona che non fosse un cavaliere era considerato un diseredato, appunto, un “villano”. Il mondo dell’hip-hop è stato spesso relegato ad un’arte di serie B o qualcosa di negativo per la società. Perciò, la figura del cattivo è quella che più si avvicina al suo DNA fuori dalle regole. L’hip-hop, soprattutto durante la Golden Age degli anni ‘90, era stigmatizzato ad uno status criminale, violento e crudo. Michelle Alexander scrive nel suo libro «The New Jim Crow» che abbracciare lo stigma è un atto politico, un atto di sfida in una società che cerca di sminuire un gruppo di persone sulla base di un tratto inalterabile. Per questo è sempre stato più facile identificarsi con i cattivi dei film o dei fumetti, personaggi incastrati in un’etichetta sociale ben più affascinanti degli eroi.