A Guide to All Creative Directors

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"Sirens" e il canto delle sirene che non ammalia

La miniserie di Netflix non brilla nonostante una diva come Julianne Moore

Sirens e il canto delle sirene che non ammalia  La miniserie di Netflix non brilla nonostante una diva come Julianne Moore

La parola sirene può avere un doppio significato. A livello di immaginario il termine riconduce alle bellissime creature marine che, con la loro voce, sono in grado di attirare i marinai per farli poi morire sotto le acque. Le sirene che sentiamo più quotidianamente, invece, possono essere quelle che sfrecciano per strada, che lampeggiano e suonano a intermittenza. A volte possono segnalare un pericolo, altre ancora stanno cercando di catturare, fermare o salvare qualcuno. Ciò che accomuna queste due visioni distanti del vocabolo è l’allarme che in entrambi i casi viene suscitato. Da una parte le sirene, esseri meravigliosi, causano la fine dell’esistenza delle loro impotenti vittime. Dall’altra il suono che viene riprodotto può suggerire la possibilità di un aiuto, se si arriva e si soccorre in tempo, ma la sensazione di minaccia che suscita resta incollata. Dalla dicotomia racchiusa nella parola “sirene” si sviluppa Sirens, miniserie Netflix basata sulla pièce Elemeno Pea di Molly Smith Metzler, anche creatrice per la piattaforma e di ritorno dopo il successo di Maid, la quale riscosse un apprezzamento unanime per la grazia con cui raccontava la lotta continua di una giovane madre alle prese con il lavoro di domestica. Stavolta le personagge di Smith Metzler sono Julianne Moore, Meghann Fahy e Milly Alcock e, sebbene il prodotto sia nuovamente una critica sulla divisione di classe, il mordente che dovrebbe scalfire l’ipocrisia attraverso la dark comedy non è raffinato quanto lo era stata la scrittura della precedente miniserie - o quanto Sirens stessa voglia far sembrare. 

@netflix No one knows you like a sister. Meghann Fahy, Milly Alcock, Julianne Moore and Kevin Bacon star in #sirens original sound - Netflix

Pur con l’evidente intenzione di essere volutamente dai toni spinti, cercando una critica satirica che è meno sottile di ciò che forse si desiderava, Sirens risente della patina cheap che purtroppo viene riservata ad alcuni prodotti Netflix e che, se non supportata da una storia adeguatamente intrigante, si nota con ancora più smacco. Una versione aggiornata di ciò che poteva essere una parentesi di Desperate Housewives, con un’isola a fare da teatro alle dinamiche di potere che i personaggi (e la sceneggiatura) credono di saper maneggiare con sottigliezza e che sono invece didascaliche. Un mondo all’apparenza idillico dove la matrona Michaela Kell (Moore) è pronta a dare il suo solito gala annuale, in cui stavolta ad aiutarla c’è l’assistente personale Simone (Alcock), diventata in pochissimo tempo anche confidente e migliore amica. Una giovane che nasconde il suo passato di abbandoni e abusi e la cui nuova vita fatta di cene in abiti eleganti e ville con giardinieri è diventata la normalità, scossa dall’arrivo imprevisto della sorella maggiore Devon (Fahy), che inizierà ad indagare sull’ambiguo rapporto che lega la ragazza alla sua superiore. Le maschere vengono fatte cadere nei pochi giorni che precedono l’atteso evento e in cui il mistero che avvolge la padrona di casa Michaela cercherà di essere svelato dall’ostinata Devon. Tutto mosso dall’enigmatico sentore di manipolazione che Sirens cerca di rendere costante e ambiguo, facendo interrogare lo spettatore sulla vera entità del potere del personaggio di Julianne Moore.

Sirens teorizza su una  sorta di influenza innata, la stessa che ogni donna sarebbe in grado di esercitare sugli altri. Nell’equazione donne-uguale-sirene, dunque in grado di calamitare e condizionare gli altri, lo show crea tante aspettative per poi sgonfiarle pur mantenendo una coerenza narrativa che è corretta seppur non esaltante. Dove l’ironia utilizzata non è così frizzante, finendo per stridere con l’analisi sociale che ancora una volta la showrunner vuole scardinare, giungendo alla fine alla risoluzione e alla chiusura di un cerchio impeccabile, ma non per questo galvanizzante come dovrebbe essere il canto di una sirena. Declinando di volta in volta il potere come posizione sociale e/o autorevolezza e mostrandolo come unico modo per le donne di conquistare posizioni favorevoli nel corso della storia, Sirens ha intuizioni sofisticate, ma svolte prevedibili. Ha un disegno più grande che è ben delineato, ma che non entusiasma per la tenuta prolungata e perciò sempre meno incisiva che conduce alla soluzione del rebus. È uno svago, certo, un mystery dalle tinte gialle che non dimentica la battute da salotto alto borghese, ma che non ammalia mai, nemmeno una volta, ed è una manchevolezza inammissibile vista la mitologia con cui ha a che fare.