FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

Leggere i comandamenti di stile di Rick Owens oggi Era il lontano 2009, perché dovrebbero interessarci ancora?

Il 2009 è stato un anno di grandi stravolgimenti. Il mondo si trova ancora in crisi economica post-2008, Barack Obama diventa il primo Presidente degli Stati Uniti d’America afroamericano e Satoshi Nakamoto crea i Bitcoin. In quel 2009 denso di eventi, il mondo della moda ha ricevuto la propria, personalissima versione delle Tavole della Legge, a cura di uno dei personaggi più avanguardisti del settore. A questo punto, dovreste fare lo sforzo di accantonare l’iconografia classica religiosa: il Mosé della moda ha lunghi capelli corvini, un fisico tonico ed è solito indossare tacchi vertiginosi con nonchalance. Il suo nome è Rick Owens.

È tra le pagine patinate di Details, la rivista mensile dedicata alla moda maschile pubblicata da Condé Nast fino al 2015, che vengono confessati i suoi segreti di stile che, ancora oggi, circolano imperterriti nel web. E non è strano che, a distanza di sedici anni, queste regole vengano riscoperte, rilette, rivangate a intervalli regolari (spesso in occasione del suo compleanno).

I dieci comandamenti, secondo Rick Owens


Le regole di stile di Rick Owens, designer da sempre anticonformista e provocante, se pur datate e magari nemmeno aggiornate, parlano di una creatività dissoluta e coerente, apparentemente svincolata dalle logiche dei fatturati e dei profitti che regolano il settore della moda, di un vero e proprio stile di vita più che un trend passeggero, di un mondo estetico che mescola arti figurative e moda:
  1. I’m not good at subtlety. If you're not going to be discreet and quiet, then just go all the way and have the balls to shave off your eyebrows, bleach your hair, and put on some big bracelets.

  2. Working out is modern couture. No outfit is going to make you look or feel as good as having a fit body. Buy less clothing and go to the gym instead.

  3. I've lived in Paris for six years, and I'm sorry to say that the Ugly American syndrome still exists. Sometimes you just want to say «Stop destroying the landscape with your outfit.» Still, from a design standpoint, I'm tempted to redo the fanny pack. I look at it as a challenge-it's something to react against.

  4. When a suit gets middle-of-the-road it kind of loses me--it has to be sharp and classicand almost forties.

  5. Hair and shoes say it all. Everything in between is forgivable as long as you keep it simple. Trying to talk with your clothes is passive-aggressive.

  6. There's something a little too chatterboxy about color. Right now I want black, for its sharpness and punctuation.

  7. Jean-Michel Frank, the thirties interior and furniture designer, supposedly had 40 identical double-breasted gray flannel suits. He knew himself and is a wonderful example of restraint and extravagance.

  1. I hate rings and bracelets on men. I'm not a fan of man bags, or girl bags either-or even sunglasses. I don't like fussy accessories. Isn't it more chic to be free? Every jacket I make has interior pockets big enough to store a book and a sandwich and a passport.

  2. With layering, sometimes the more the better. When you layer a lot of black you're like a walking Louise Nevelson sculpture, and that's pretty attractive. Allowing yourself to be vulnerable is also one of the most attractive things you can do.

  3. It's funny-whenever someone talks about rules, I just want to break them. I recoil from the whole idea of rules.

Si tratta di dettami che riflettono un mondo complesso, che spazia tra libertà (Regola no. 10: «It’s funny-whenever someone talks about rules, I just want to break them. I recoil from the whole idea of rules»), cura personale e importanza di sentirsi bene con il proprio corpo (Regola no. 2: «Working out is modern couture. No outfit is going to make you look or feel as good as having a fit body. Buy less clothing and go to the gym instead»), prese di posizione e di coscienza (Regola no. 1I’m not good at subtlety. If you're not going to be discreet and quiet, then just go all the way and have the balls to shave off your eyebrows, bleach your hair, and put on some big bracelets»).

A riprova del fatto che il termine “stile” va ben oltre i capi indossati, il vademecum sopracitato lascia trasparire anche la personalità di Richard Saturnino Owens, lo stilista statunitense che guarda con ironico rammarico la moda del proprio paese natio, pronto a sfidarne le opinabili tendenze (Regola no. 3: «I’ve lived in Paris for six years, and I'm sorry to say that the Ugly American syndrome still exists. Sometimes you just want to say «Stop destroying the landscape with your outfit.» Still, from a design standpoint, I'm tempted to redo the fanny pack. I look at it as a challenge-it's something to react against»).

Ma a parte l’essere sorprendenti (Regola no. 4, chi avrebbe mai detto che il re della provocazione amasse il tailoring classico, anni ’40?), perché queste regole suscitano tanta curiosità?

La moda ha perso la propria gloriosa reputazione

Mai come negli ultimi due anni si è assistito a cambi di poltrone così rapidi e frequenti, un avvicendarsi frenetico di addii e nomine che hanno inevitabilmente spostato l’attenzione sul ruolo dei direttori creativi all’interno delle case di moda. Dopo i primi facili entusiasmi che solitamente accompagnano notizie scoppiettanti, è diventato chiara a tutti la natura strategica di questi spostamenti. I direttori creativi si rincorrono, prendendo l’uno il posto dell’altro, rendendo quasi impossibile credere all’esistenza di coincidenze (basti pensare al trittico composto da Pierpaolo Piccioli, Alessandro Michele e Demna Gvaslia, che si sono alternati da Valentino, Gucci e Balenciaga). Inoltre, considerando la situazione economica e reputazionale in cui verte il sistema della moda, non è difficile dedurre l’importanza della risonanza mediatica di dette nomine.

Il contesto attuale, infatti, prevede: vendite ancora in calo (nel primo semestre del 2025, il fatturato dell’industria italiana di moda ha subìto un calo del 4,3% rispetto all’anno precedente, risultato dell’andamento negativo sia dei settori core che di quelli collegati, quali beauty, bigiotteria, occhialeria, gioielleria), un aumento generale dei prezzi che mal giustifica l’impiego di società satelliti per lo sfruttamento di manodopera a basso prezzo (citiamo, nel mirino della Guardia di Finanza, Loro Piana, Giorgio Armani, Valentino) e, dulcis in fundo, rivolte operaie. Non proprio uno scenario roseo. Ciò detto, chi può salvare la reputazione della moda, se non coloro che creano bellezza e instillano il desiderio? "Non tutti gli eroi indossano una maschera”, e infatti i paladini della moda indossano vestiti firmati.

Velocità, profitto e superficialità: il nuovo paradosso del sistema

Seppur i direttori creativi siano soltanto la vetta di un sistema di ombre, professionisti che rappresentano la creatività e la visione stilistica di un brand, la loro figura ha già assunto i contorni di un martirio. Attualmente, in questo turbinio di poltrone, è chiesto loro di possedere una pletora irrealistica di competenze, tra cui essere geni creativi, esperti di business e di marketing. Un po’ alla Jonathan W. Anderson: Designer of the Year per due volte di fila, re Mida della moda e generatore professionista di viralità.

Il ruolo fondamentale giocato dalla viralità nell’affermazione di un marchio sul mercato introduce un ulteriore, temibile antagonista: i social media. «Social media has turned fashion into the Hunger Games», ha affermato il designer belga Glenn Martens in un recente episodio del Business of Fashion Podcast, «We are just consuming visuals and we don’t really have the time to go deep into the clothes, the storytelling, the construction, where it comes from. It just needs to be like a hit. It gets a bit more superficial». La superficialità con cui viene trasmesso e, spesso e volentieri, accolto il lavoro dei designer diventa la naturale conseguenza di un sistema che non sa più valorizzare davvero i propri creativi.

La stessa frustrazione verso una rapidità disattenta e svalutante emerge dalla recente intervista a Miuccia Prada e Raf Simons, pubblicata da Interview Magazine lo scorso settembre: «Everything has sped up and our attention spans are much shorter, which is something I disagree with. People don’t even listen. [...] If you have a collection which is more doable in terms of form—it wasn’t like a big shoulder and a narrow waist and strange lengths—you could think, «Ah, it looks so easy,» because you didn’t really pay attention to it» ha affermato Raf Simons.

È questo il nuovo paradigma del sistema della moda: un singolo individuo ha il compito di risollevare velocemente le sorti di un marchio a suon di profitti da capogiro e ingraziarsi la critica a colpi di sensazionalismi, sapientemente dati in pasto ai social media, pena la cessione immediata dei rapporti lavorativi (un po’ quello che è successo a Sabato de Sarno da Gucci). Un ragionamento un po’ semplicistico.

I direttori creativi non sono solo direttori creativi

Nelle mani dei brand, i direttori creativi sono delle vere e proprie celebrità da accaparrarsi per suscitare prima hype, poi desiderio. Scegliere quello più chiacchierato per una futura successione diventa cruciale per generare interesse e, auspicabilmente, incassi da record. Agli occhi del pubblico, tuttavia, nonostante i tentativi di democratizzazione della moda, restano figure mitologiche lontanissime. In questo contesto, le regole di Rick Owens sono come il piccolo spioncino di una serratura, attraverso il quale sbirciare i diktat estetici e morali dell’icona avanguardista, oggetto di culto e abitante di un Olimpo dorato inaccessibile ai più. Come se, per un attimo, attraverso queste intime rivelazioni, fosse possibile prendere parte al suo processo creativo e scoprire con quali occhi osserva il mondo.

Trovare interessanti tali dichiarazioni a distanza di sedici anni dimostra che al pubblico non interessa davvero in quale brand andranno i direttori creativi, se non per una manciata di minuti. Al pubblico interessa cosa porteranno, cosa racconteranno ancora di loro. Ed è rincuorante questa sete di conoscenza del loro mondo creativo, al di là delle sovrastrutture dei brand: forse, il potere annientante dei social media non ha ancora avuto la meglio. Forse, il contenuto ci interessa ancora più del rumore.