
Perché i fashion film hanno sostituito le sfilate? Un possibile ponte tra consumo visivo e realtà elitaria
Ci troviamo in una Milano Fashion Week di transizione: tra debutti attesi e formati rivisitati, molti brand hanno optato per presentazioni più intime e controllate, lontane dal clamore delle passerelle tradizionali. Versace ha scelto un approccio ravvicinato, quasi da showroom esclusivo, per presentare la nuova collezione di Dario Vitale. Diesel ha puntato invece su un format democratico ma circoscritto, con una caccia all'uovo culminata in un party che è stato di fatto la presentazione della nuova collezione. In un panorama dominato da queste presentazioni alternative, Gucci sotto la guida di Demna ha optato per un film diretto da Spike Jonze come mezzo principale di presentazione: non una semplice registrazione, ma un'opera autonoma che proietta la collezione SS26 in una dimensione artistica. Il cinema ha convinto anche brand più popolari, con Borbonese che in Fashion Week ha proiettato il corto Ci vediamo da Bice, dedicato a uno dei ristoranti più frequentati di Milano. E ancora ai piani alti della moda Jil Sander, che per introdurre Simone Bellotti ha fatto un trailer, o Prada, che ha ingaggiato Yorgos Lanthimos per la campagna con Scarlett Johansson.
Inutile dire che l’attenzione di tutti, fashion industry e non, ieri era riservata a The Tiger, il film di Gucci dal cast stratosferico: Demi Moore, Edward Norton, Ed Harris, Alex Consani, Elliot Page, Keke Palmer, Kendall Jenner, Alia Shawkat, Julianne Nicholson, Heather Lawless, Ronny Chieng. Il debutto di Demna, un designer che da Balenciaga ha fatto della drammaticità un tratto distintivo, alla direzione creativa della maison era già un evento cardine della settimana di per sé, ma l’aggiunta di una presentazione alternativa come la premiere di un film ne ha amplificato il valore. E in una stagione così caotica, segnata da cambiamenti alla direzione creativa in tutto il settore, riuscire ancora ad attirare l’attenzione di tutti non è cosa da poco. Il successo e il chiacchiericcio suscitati dal film di Spike Jonze fanno pensare che forse, a partire dalle prossime stagioni, la moda comincerà a preferire le sale cinematografiche invece delle passerelle. Ma cosa vuol dire questo per il settore?
Perché i brand comunicano tramite il cinema?
Scegliere di presentare una nuova collezione sul grande schermo invece che in passerella non è solo un capriccio creativo, ma un atto strategico per colmare la scollatura tra bene di consumo visivo per milioni e quello di prodotto d'élite acquistabile da pochissimi. Il film The Tiger di Gucci sembrava mirato a portare la collezione al grande pubblico dei social più che ai “pochi eletti” tra stampa, buyer e influencer. La collezione presentata inoltre uscirà da subito nelle boutique principali del brand, a dimostrazione dell'immediatezza che i direttori di Gucci hanno voluto iniettare nella nuova guida artistica del brand. Un altro esempio di come il cinema è diventato utile alla moda per sembrare più accessibile è la compagnia di produzione creata da Saint Laurent, che per altro all’ultima Mostra di Venezia ha vinto il molto ambito Leone D’Oro per Father Mother Sister Brother di Jim Jarmush.
In questa scia, il rilancio di Trussardi sta arrivando proprio sotto forma di un film intitolato The Gentle Society, un cortometraggio presentato al Festival di Venezia 82 con Eva Herzigová e Fernando Lindez come protagonisti, che esplora il nuovo capitolo del brand per poi presentarlo nuovamente in fashion week come punta di diamante della conversazione. Ma questa tendenza va oltre i debutti isolati. Oltre al trailer Wanderlust per il nuovo Jil Sander sotto Simone Bellotti, anche Prada ha creato una campagna con Yorgos Lanthimos e offre ai propri clienti cinesi proiezioni di film nel nuovo e bellissimo Rong Zhai a Shanghai. Nel mondo della moda indie, intanto, Luis de Javier ha optato per una presentazione in livestream di 24 ore, ovvero un documentario in presa diretta su se stesso e il suo team che preparano la collezione in un format see-now-buy-now, mentre Tolu Coker ha preferito un film con Naomi Campbell alla classica sfilata.
Film o show?
È vero che la pandemia aveva riportato in auge il desiderio di presentazioni in presenza, tangibili, quasi come un ritorno alla normalità fisica dopo mesi di schermi e streaming forzati. In quel periodo, i brand lottavano già per bilanciare l'esclusività e l'inclusività digitale – ma ovviamente nessuno si aspettava che nel corso di quei cinque anni i prezzi sarebbero esplosi e, diciamocelo, il mondo sarebbe andato alla malora. Oggi quasi nessuno può comprare moda di lusso e, in effetti, sono sempre in meno a comprarla. In più, quasi il 90% degli addetti ai lavori e quasi la totalità del pubblico globale consumano le sfilate tramite video: clip su YouTube, reel su Instagram o lookbook digitali.
Questa divergenza tra l'esperienza elitaria sul posto e il consumo mediatizzato evidenzia un paradosso: la moda aspira a essere culturale, ma rischia di ridursi a un contenuto effimero se non abbraccia formati narrativi come il film, che trasformano una collezione in una storia condivisibile, capace di generare hype autentico senza dipendere da like istantanei. Ed è qui che, ad esempio, trailer e teaser per i direttori creativi entrano in gioco: non solo per creare awareness e prevenire "flop" simili a quelli cinematografici, ma per offrire un assaggio parziale dell'estetica complessiva, come nei micro-video di Maison Margiela con Glenn Martens o nel teaser di Dior con Jonathan Anderson e Sam Nivola. Tra parentesi, proprio con un film di nome Nighthawk è stata presentata la collezione Artisanal 2024 di Maison Margiela sotto Galliano – nemmeno servirebbe citare, poi, il fatto che tutte le ultime collezioni di Celine sotto Hedi Slimane sono state presentate esclusivamente tramite film. E le vendite del brand non ne hanno sofferto.
Bisogno di intimità?
Prendiamo Willy Chavarria alla New York Fashion Week: per la SS26, lo stilista ha preferito il format del salon, un'intima riunione da atelier che privilegia il dialogo diretto con i buyer e i VIP, enfatizzando l'artigianalità e l'identità culturale del brand. Senza rimanere a porte chiuse anche altri brand a New York hanno optato per un format che, nella stampa, ha iniziato a essere chiamato «presentazione intima»: il termine salon, ovvero la classica presentazione di Haute Couture per soli buyer e clienti senza eccessiva stampa, è stato usato per descrivere gli show di Wiederhoeft e LaPointe. Una ricerca di intimità che ricorda molto da vicino le modalità intime preferite da Versace, Gucci e Diesel a Milano ma soprattutto la no phone policy di The Row, così sensazionale in un'era in cui Wi-Fi e visualizzazioni sopprimono ogni emozione umana.
Il movimento dei prezzi nel luxury sembra suggerire che ci stiamo muovendo verso una polarizzazione tra accessibilità e esclusività: mentre grandi brand come Gucci e Versace spingono su strategie ibride per democratizzare l'ingresso visivo, i marchi di nicchia come The Row si rifugiano in un'élite che valorizza il "quiet luxury" come status simbolico, con investimenti da giganti come Chanel che ne amplificano il valore a oltre un miliardo di dollari. In questo contesto, i trailer fungono da ponte perfetto, adottando tattiche dell'intrattenimento per sollevare awareness in un 2025 di cambi radicali, dove i direttori creativi evolvono in "franchise creativi" che ampliano lo storytelling a lifestyle e gusti estetico-intellettuali, creando micro-mondi invitanti. Serve però un passo oltre.
Guardare ma non toccare
Alla moda, come si diceva, toccherà scegliere cosa essere: parte integrante della cultura, capace di influenzare il dibattito pubblico attraverso medium potenti come il cinema come Demna o Saint Laurent coi rispettivi progetti; o una nicchia per pochi, dove l'esclusività diventa un lusso fine a sè stesso? A ogni buon conto, chi può permettersi di acquistarla è già una nicchia: come evidenzia il report True-Luxury Global Consumer Insights 2025, il segmento di clientela che può consumare moda di lusso con la frequenza desiderata dei brand si calcola nelle decine di migliaia, non nelle centinaia né nei milioni. Per tenere in piedi uno stuolo di business che vogliono solo crescere e crescere ancora è una base clienti che non basta più.
I film, con la loro capacità di narrare e democratizzare, potrebbero essere la via per una moda che non si isola, ma si reinventa come esperienza condivisa, risolvendo quel gap tra chi guarda e chi possiede. In un'era di crisi dell'esclusività, la moda ha smesso di essere un'industria di nicchia per diventare parte della cultura pop e internet finendo per massificarsi ma volendo escludere tutti con una barriera di prezzi altissima. Il che si è tradotto in un concreto calo di engagement digitale negli ultimi tre anni, crollate del 40% secondo Bain. Oggi dunque abbracciare il cinema non è solo un format, ma una scelta per sopravvivere alla propria stessa intrinseca contraddizione e ispirare un pubblico escluso che, da essa, si sta allontanando sempre di più.











































