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"Father Mother Sister Brother" ci mostra che tutte le famiglie sono uguali Ce lo dice il regista e sceneggiatore Jim Jarmusch, prodotto da Saint Laurent

La Saint Laurent Production è tra gli investitori del nuovo film di Jim Jarmusch, Father Mother Sister Brother. L’opera, con un cast stellare che va da Cate Blanchett a Adam Driver, da Vicky Krieps a Tom Waits, è divisa in tre episodi (padre, madre e sorella/fratello insieme), tutti legati da rimandi tematici e citazioni improbabili che, come un filo, uniscono le varie storie. Analogie rappresentate da un colore che attraversa ogni quadro del trittico. Jarmusch sceglie il rosso per i suoi personaggi, ognuno lo indossa in maniera differente.

Nella storia sul padre Waits i figli Driver e Mayim Bialik indossano maglioni e cappotti ordinari, mentre sono tre rossi accesi che uniscono la madre di Charlotte Rampling alle figlie Blanchett e Krieps. I fratelli Indya Moore e Luka Sabbat sono più discreti, c’è una maglia non appariscente e una bandana attaccata ad uno zaino, ma essendo l’episodio che parla di morte ci sta che al colore venga sostituita la sobrietà, sebbene i protagonisti siano incredibilmente belli e accuratamente stilosi incorniciati nella loro dimora parigina. Al richiamo narrativo, dunque, Jarmusch allega anche un richiamo visivo, che attiva le sinapsi dello spettatore, in cui diventa pian piano sempre più chiaro cosa ci sta dicendo l’autore con il suo Father Mother Sister Brother. Oltre a ricordarci che, visti alcuni outfit e con buona parte di attitudine infusa nei suoi interpreti, continua ad essere uno dei registi più cool al mondo.

In maniera ironica e scanzonata, profonda ma non per questo filosofica, l’opera racconta come, pur essendo tutti così estremamente diversi, abbiamo qualcosa che ci accomuna. Non importa se si è sposati o divorziati, se si ha un lavoro fisso o ci si faccia pagare l’Uber della propria mamma, nessuno riuscirà mai a conoscere davvero i propri genitori. È un dato di fatto. Che tu sia in America, in Irlanda o in Francia - tre paesi presi a campione dalla tesi di Jarmusch e in cui vengono ambientati i racconti - ci saranno sempre parti dell’esistenza di chi ti ha messo al mondo che non potrai mai realmente comprendere o forse ti sarà concesso solo quando sarà ormai tardi. Non c’è malinconia in tale osservazione. È l’assioma per cui gli amici sono coloro che ti scegli, non come con la tua famiglia, che può essere perciò ben più misteriosa di quanto avresti mai potuto immaginare e che richiede un certo sforzo saper smascherare, sempre se se ne abbia voglia. 

Jarmusch non giudica nessuno. Non insegna che bisognerebbe andare a trovare più spesso i propri genitori, né che tipo di madre o padre sarebbe il caso di essere. L’autore detta una constatazione a volte indifferente, altre dolorosa. Che a volte si fa carico di muri innalzati dall’impossibilità della comunicazione, mentre altre dà sollievo proprio perché ci mostra che non è detto che dalle persone tocca sempre aspettarsi qualcosa, nemmeno se sono nostri familiari. Può essere un dispiacere, certo, ma talvolta può essere anche un balsamo rendersi conto che non si è uguali alla propria famiglia, che non c’è nulla di male nel condividerci poco. Soprattutto se viene mostrato nella maniera in cui fa Father Mother Sister Brother, dove diventa chiaro che l’enigma che si cela dietro ad un genitore non è detto che verrà mai decifrato e, così, anche loro non dovranno mai per forza svelare i nostri segreti.

È il quieto vivere di un costrutto sociale in cui a volte basta solo una visita ogni tanto o una tradizione come il tè delle cinque per sentire di aver rispettato ciò che viene richiesto. Ricordando che sono delle persone a metterci al mondo, ma che siamo destinati ad essere soli. E, in virtù di questo, si può tentare di trascorrere saltuariamente del tempo con i propri cari, prima di perderci di nuovo nei territori di Desolandia.