
Che cos’è il “conscious unbossing”? Sempre di più, i lavoratori Gen Z rifiutano le classiche gerarchie
Tutti vogliono fare carriera – ma a che prezzo? Mentre il mondo del lavoro si rivela sempre meno meritocratico e sempre più stressante e un’intera generazione si domanda quale sia veramente il punto di una carriera che richiede molto in termini di tempo e concede poco in termini di soldi, la nuova generazione che si affaccia sul mondo del lavoro sembra avere capito che forse lo stress causato da un avanzamento di carriera supera di gran lunga la soddisfazione personale che se ne ricava. Ovviamente, anche per questa presa di coscienza c’è un nome: è il “conscious unbossing”, un fenomeno emergente che vede tra i lavoratori della Gen Z diventare sempre più disinteressati ai ruoli tradizionali di management. Il termine descrive una scelta consapevole di allontanarsi dai percorsi di carriera convenzionali, per privilegiare invece la skill specialistica, l’equilibrio tra vita privata e lavoro e l’assenza di vincoli. Anche se non è precisamente un rifiuto completo della leadership in sé, il “conscious unbossing” segnala una ridefinizione di cosa significhi essere leader oggi al di là di ciò che dicono i fuffa-guru di LinkedIn, che dà più valore all’autonomia, all’influenza e alla collaborazione rispetto allo status e al controllo. Se con i Millennial, infatti, la rincorsa alla scalata del potere aziendale rimane molto sentita, la Gen Z ha manifestato una chiara preferenza per ruoli che privilegiano flessibilità, crescita personale e benessere. Secondo uno studio condotto nel Regno Unito da Robert Walters North e riportato su Forbes qualche mese fa, il 52% dei professionisti Gen Z evita consapevolmente posizioni manageriali tradizionali e che il 69% pensa che i ruoli di middle management portino molto stress, scarsi benefici oltre che autonomia limitata e scarso equilibrio vita/lavoro.
Secondo Business Insider, invece, «la Gen Z è 1,7 volte più propensa rispetto alle generazioni precedenti “a evitare ruoli dirigenziali per proteggere il proprio benessere”». Questo approccio più “disingaggiato” ha importanti implicazioni per i responsabili delle risorse umane e i dirigenti, che per lungo tempo hanno fatto affidamento su pipeline di leadership chiare, fondate su promozioni gerarchiche. Il fenomeno si iscrive in realtà in un più ampio ripensamento dell’importanza e del peso che il lavoro dovrebbe avere nella vita delle persone in una società ormai ipertrofica e iper-frammentata dove, sui social, inizia a serpeggiare la nozione che certe categorie professionali (non ultime le risorse umane o i project manager) siano, per citare il famoso meme, “fake e-mail jobs” cioè lavori di middle-management dove gli interessati sono più faccendieri telematici che mandano e-mail avanti e indietro che figure dall’impatto reale sull’azienda o sulla società. P arlando di recente con il magazine WorkLife, Martin Colyer, direttore dell’innovazione e strategia AI presso la società di consulenza LACE Partners, ha detto che queste nuove preferenze richiedono alle aziende di ripensare la definizione stessa di carriera. Invece di salire su scale verticali, molte organizzazioni stanno passando a modelli operativi basati sulle competenze, dove il progresso è misurato attraverso l’expertise e l’impatto che il lavoratore ha sulla performance aziendali. In questi modelli, la leadership è meno una questione di titoli formali e più la capacità di influenzare, guidare e prendere decisioni a ogni livello dell’organizzazione - un modello di leadership più distribuito e connesso, dove conoscenza specializzata e contributi effettivi pesano più che l’autorità manageriale.
“project manager” feels like a fake email job because it implies that work is simply a continuation of college group projects where you assign roles, present a doc, and then pat each others’ backs
— Marcel Tan (@Marcel7an) April 29, 2025
Secondo l’articolo, i professionisti HR più lungimiranti stanno progressivamente abbandonando i piani di successione rigidi per adottare pipeline di competenze più dinamiche che coltivano expertise e adattabilità, riconoscendo che certe capacità vadano oltre i tradizionali ruoli manageriali. Le conseguenze del “conscious unbossing” pongono l’esperienza su un approccio al lavoro più pratico e meno definito da marcatori sociali fini a se stessi (pensate al Mega-Direttore di Fantozzi o al De Marinis di Camera Cafè) ma soprattutto il fatto stesso che il fenomeno esista e gli abbiano dato un nome è forse indicativo di come questo rigetto dell’arrivismo fine a se stesso sia solo la presa di coscienza di un fenomeno che in realtà è esistito per anni senza che nessuno lo notasse, ovvero il disimpegno di chi lavora causato dalle carenze di una leadership che non valorizza i lavoratori stessi ma si limita ad accontentarsi del raggiungimento di certi obiettivi. Eppure, sempre secondo Forbes, il ruolo del middle management, che è storicamente il collante essenziale tra i dirigenti senior e i contributori individuali, sta vivendo una trasformazione più che una scomparsa.
Nonostante l'89% dei datori di lavoro consideri ancora i middle manager fondamentali, la visione tradizionale di questi ruoli come meri controllori gerarchici sta venendo ripensata esplorando strutture più piatte e modelli di leadership collaborativi che distribuiscono il potere decisionale e l’influenza più ampiamente, in linea con il desiderio della Gen Z di autonomia e contributo collettivo – anche se le ragioni della riluttanza della Gen Z verso i ruoli manageriali sono strettamente legate alle preoccupazioni per il benessere mentale e il burnout. Il tema però è che, per tornare all’articolo di Business Insider, la Gen Z rappresenterà il 30% della forza lavoro entro il 2030 e dunque se le aziende non adatteranno le strategie di sviluppo, si troveranno a corto di leader capaci di guidare i team e far crescere le organizzazioni. Le risposte pratiche al “conscious unbossing” includono offerte di orari flessibili, supporto a opportunità di leadership basate su progetti e la progettazione di percorsi di carriera che non solo valorizzino la padronanza delle competenze individuali piuttosto che l’autorità manageriale ma in cui la leadership è definita dal contributo e non dal controllo.













































