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Perché potremmo fare a meno dei premi del British Council?

Quando la moda si dà il cinque da sola

Perché potremmo fare a meno dei premi del British Council? Quando la moda si dà il cinque da sola

È sicuramente strano vedere qualcuno mettere like alle proprie foto. È ancora più strano vedere qualcuno darsi il cinque da solo. Persino quando Napoleone si auto-incoronò fu strano. Non di meno, nessuno trova strano quando i leader dell’industria della moda, già ricchi e famosi oltre che venerati da schiere di fan, si assegnano premi a vicenda. È questa la sensazione che ha colto molti all’annuncio di ieri delle nomination per i Fashion Awards 2023 la cui cerimonia si terrà a Londra il prossimo 4 dicembre alla Royal Albert Hall. La premiazione esiste dal 1984, è difficilmente una cosa nuova, eppure in un anno così complesso per la moda, così carico di discorsi sulla povertà delle idee, sulla reificazione dei valori più basici, sulla difficoltà delle nuove voci del sistema di farsi sentire. E se già i Sustainable Fashion Awards avevano coronato la Milan Fashion Week con due ore di sperticata autocelebrazione, i prossimi Fashion Awards di Londra si annunciano ancora più inutili. Perché? Perché se premi come il Woolmark Prize o l’LVMH Prize hanno il merito di mettere sulla mappa designer nuovi come Setchu, ad esempio, e dunque hanno come minimo l’interesse della scoperta, questi premi celebrati con tanta fanfara premiano creativi che hanno già tutto. Le nomination per Designer of the Year del 2023 sono infatti andate a Jonathan Anderson, Miuccia Prada e Raf Simons, Daniel Lee, Matthieu Blazy e Sarah Burton – tutti grandi creativi, certo, ma siamo sicuri che abbiano bisogno di un premio?

Ciascuno dei direttori creativi nominati ha una carriera assai affermata, un brand (o più) di immenso successo da dirigere e che di base macina vendite, e un conto in banca che farebbe piangere lacrime amare a qualunque lavoratore sottopagato dell’industria – hanno davvero bisogno di una tiara e una pacca sulla spalla? Tanto più che vengono premiati come designer dei direttori creativi che, nella maggior parte dei casi, disegnano al massimo bozzetti e appunto dirigono creativamente la produzione di un brand con l’aiuto di team ben più ampi. La recente raffica di nomine che ha interessato i “secondi”, ovvero i direttori degli studi di design provenienti da Valentino, da Gucci, da Saint Laurent, o da Tom Ford ora tutti alla guida di grandi brand, ha in effetti gettato un riflettore sul ruolo centrale che questi creativi svolgono dietro le quinte, portando molti a farsi domande sulla divisione dei lavori in un atelier di moda. Ci si domanda, in primo luogo, quanto e quale lavoro facciano esattamente i direttori creativi, ma soprattutto quanto peso abbiano effettivamente i design director che, quando conviene, sono definiti gli autori o i co-autori dell'estetica di un certo brand. Se un insider capisce bene come i ruoli si distribuiscono in un atelier, un appassionato di moda meno informato potrebbe (giustamente e ingenuamente) rimanere deluso dal sapere che i propri abiti non sono il frutto di una vera e propria mano autoriale ma sono una sorta di infuso della vision del direttore creativo, del lavoro del design director e di tutti i team di design sotto di lui. Non si capisce bene cosa venga premiato di preciso, quale sia il criterio di giudizio ma anche quale sia lo scopo del premio stesso al di là del far sentire contento un per quindici minuti qualcuno che nella vita ha già vinto. Nozione che si riflette anche sull'interesse che il pubblico prova verso queste premiazioni.

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La cosa sarebbe diversa se si premiasse il brand come azienda – ogni industria ha i suoi premi di settore. Ma i premi del British Council sono nominali e soprattutto sono rivolti a creativi che, anche nella categoria degli emergenti, o in quella dei modelli, sono affermatissimi e, francamente, non possono veramente andare più oltre di così in termini di successo - senza nemmeno menzionare quanti di loro deleghino incarichi e si prendano meriti. Il loro scopo dichiarato è di «dare più ampia voce i leader del cambiamento, celebrare l'eccellenza nella creatività e sostenere la prossima generazione di talenti creativi», ma a dirla tutta i premi celebrano lo status quo, una generazione che esiste da trent’anni e una creatività eccellente ma non frutto di una mente singola. Non c’è novità in questi premi, i vincitori vengono pescati dallo stesso cappello contenente la stessa shortlist di dieci nomi da anni – i premi stessi non hanno un vero impatto sulla carriera di nessuno, non ne rappresentano un coronamento né un momento di elevazione o di svolta. La sensazione è che molti di questi creativi si portino i premi a casa per usarli come fermaporta, come fa Gwyneth Paltrow col suo Oscar. Sembra quasi che l’unico senso della serata sia il red carpet. In certi casi i premi sono potenzialmente ironici: una delle nominate nella categoria “New Establishment” è Dilara Findikoğlu, cult designer già celebratissima, protagonista di profili sul The New York Times quando non partecipa alla fashion week, regina dei party decadenti di Halloween, ma più nota nel sottobosco dell’industria londinese per essere un boss dai metodi tirannici - e stiamo usando un eufemismo. Insomma, è giusto premiare un “Designer dell’Anno” quando in realtà il ruolo di designer è spezzettato attraverso decine di professionisti diversi? Non si potrebbe dare un premio ai direttori creativi e uno ai design director? Oppure la relativa oscurità dei design director porta gli organizzatori di queste cerimonie a ignorare la categoria? Tutti amano una medaglia, ma noi, da spettatori, rimaniamo nel dubbio.