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La sostenibilità performativa di Camera Moda

I Sustainable Fashion Awards di CNMI di domenica scorsa hanno parlato di ambientalismo in abiti di seta e diamanti

La sostenibilità performativa di Camera Moda I Sustainable Fashion Awards di CNMI di domenica scorsa hanno parlato di ambientalismo in abiti di seta e diamanti

Domenica scorsa, ai Sustainable Fashion Awards di Camera Nazionale della Moda Italiana, la nuova consulente del comitato Chiara Ferragni ha indossato un abito vintage Tom Ford risalente alla collezione FW96, in look total white e scollatura vertiginosa. Con lei hanno presenziato il red carpet di CNMI Pierpaolo Piccioli, Donatella Versace, Elodie, Marco de Vincenzo, Drusilla Foer, Cate Blanchett, Marco Mengoni, Bianca Balti, Maximilian Davis, l’ex Editor-in-Chief di British Vogue Edward Enninful, e moltissimi altri. Un potpourri di esponenti dell’industria della moda, della musica e del cinema che, incravattati e ingioiellati, hanno sorriso di fronte ai paparazzi della Scala di Milano per celebrare il Made in Italy e la sostenibilità. Ma quale sostenibilità hanno premiato, esattamente? Oggettivamente molto poco, ma capiamo perché. 

Secondo quanto presentato dagli uffici comunicazione di CNMI, i Sustainable Fashion Awards riconoscono i risultati e gli sforzi continui di stilisti e marchi italiani e internazionali nel contribuire a ridefinire un'industria della moda più sostenibile, etica, circolare. Nonostante questo, l’attenzione mediatica per l’evento è stata riservata come sempre ai look delle star che vi hanno presenziato. Il tappeto rosso - che molti non hanno esitato a chiamare green, per restare in tema - è stato il primo segno di una serata alla rincorsa del paradosso più scintillante, perché nonostante gli abiti d’archivio indossati quella sera, la mattina seguente gli influencer invitati hanno ripreso senza esitazione a postare le loro #adv. 

I premiati dei Sustainable Fashion Awards 

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I premiati della serata di domenica sono stati molteplici. In primis Gucci, che si è aggiudicato il premio Ellen McArthur Foundation Award for Circular Economy grazie al suo Denim Project, un’iniziativa che certifica le fibre di cotone del brand come prodotto di agricoltura rigenerativa certificato, con tanto di passaporto rintracciabile. Avanguardia tessile, se non fosse che il progetto prenderà il via nel 2024, che altre maison prima di Gucci lo stanno già facendo, e che si tratta di un'iniziativa unica, e quindi non estesa a tutte le collezioni. Conseguentemente, Chiara Ferragni ha consegnato The Bicester Award for Emerging Designers a Priya Ahluwalia, un premio ambito che però solleva diversi dubbi sul nome del finanziatore - un centro commerciale di lusso che, per definizione, di sostenibile ha ben poco. Dopo i premi per la sostenibilità, abbiamo poi assistito alla consegna di The Humanitarian Award For Equity and Inclusivity a Donatella Versace e di The Visionary Award ad Edward Enninful. Dall’inclusività all’attivismo, dalla moda sostenibile Made in Italy a quella dei giovani creativi indipendenti, la serata ha trasformato quello che doveva essere un momento di riflessione sugli effetti dell’industria moda sul Pianeta in un esercizio per scontare le proprie pene pubblicamente da parte dei nomi più imponenti della industry, unicamente per ottenere l’approvazione di qualche aspirante attivista. Come i grani di un rosario prescritto dal parroco dopo la confessione, i Sustainable Fashion Awards hanno percorso i temi dell’inclusività uno per uno, dieci premi e un Padre Nostro.    

 

Sostenibilità vuol dire trasparenza 

Di tutte le frasi che sono state scritte dalla CNMI per preannunciare la nuova edizione del concorso, una in particolare salta all’occhio. «L'industria della moda sta riconoscendo sempre più il peso del suo impatto ambientale e sociale», un’affermazione vera, viste le attenzioni che sempre più brand stanno prestando al cambiamento climatico e al proprio impatto in merito, ma che evidenzia allo stesso tempo l’ipocrisia sensazionale del gala di domenica sera. È vero che la moda si sta sforzando per ridurre il proprio impatto ecologico, ma in egual misura sempre più brand stanno facendo leva su progetti “green” per accaparrarsi il consenso dei consumatori. Perché se da un lato le campagne che recitano “riciclo, circolarità e bio” sono una ricorrenza, il greenwashing è all’ordine del giorno, e dati recenti rivelano che il termine trasparenza non è ancora un trend. Secondo il Fashion Transparency Index di Fashion Revolution, brand di lusso come Tom Ford e Max Mara hanno un tasso di trasparenza dello 0%, mentre quelli che si trovano in cima alla classifica, nonostante un costante lancio di nuovi progetti a favore della sostenibilità, stanno attualmente perdendo punti percentuali.

Moda e sostenibilità, un problema di incomprensione 

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I Sustainable Fashion Awards della CNMI sono stati ideali. Bellissimi, grazie ai look delle star presenti e ai discorsi carichi di pathos dei premiati, ma performativi, rivolti verso un futuro che continua a preferire l’estetica più che il contenuto.  La serata si è fatta portavoce di valori che la moda italiana non è ancora capace di afferrare vivamente perché purtroppo incastrata in un sistema retrogrado, che incolla i premi per l’inclusività e la sostenibilità assieme come se fossero una to do list. Perché se è vero che la moda sostenibile è anche inclusiva, allora i premiati ai Sustainable Fashion Awards dovrebbero essere stati anche gli artigiani italiani che si battono per proteggere un mestiere che sta via via scomparendo, le vittime di lavoro forzato nelle piantagioni di seta in Uzbekistan e quelle di lavoro minorile nei campi di cotone in Cina, e non solo i volti più famosi della pop culture italiana che, dalla comodità della propria poltrona di velluto, elogiano la couture come la nuova frontiera dell’attivismo. Se la sostenibilità è sinonimo di anti-consumismo e la moda non può esistere senza il capitalismo, allora le due realtà viaggiano su binari diversi. E forse è un bene.