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La moda può permettersi di protestare contro il capitalismo?

Riflessioni sulle frasi anti-capitalismo apparse all’ultimo show di Dior

La moda può permettersi di protestare contro il capitalismo? Riflessioni sulle frasi anti-capitalismo apparse all’ultimo show di Dior

Durante il secondo giorno di fashion week, Maria Grazia Chiuri ha presentato la sua nuova collezione SS24 per Dior. Come è ormai tradizione la direttrice creativa ha coinvolto un’artista, in questo caso l’italiana Elena Bellantoni, che ha curato un set-installazione di nome Not Her che presentava tra gli altri due statement quali “Capitalism won’t take her where she really wants to go” e “Our individual and collective transformation takes place in a radical and creative space”. Ora, l’installazione di Bellantoni è sicuramente un’opera interessante, che utilizza gli stilemi della moderna cultura pop per presentare statement identitari e filosofici – non di meno, quasi tutti hanno notato lo stridente contrasto rappresentato dal criticare il capitalismo nello show di un brand di lusso che appartiene a una delle mega-aziende più capitalistiche del mondo. E lo stesso valga per la quote sulla trasformazione che avviene in spazi creativi e radicali, frase che rende perfettamente attuale il significato originario di “radical chic” ovvero di persona che assume posizioni socialmente radicali da una situazione socio-economica altamente privilegiata. In effetti, negli ultimi tempi, dichiararsi avversi al capitalismo è parecchio in voga: nell’intervista che Cathy Horyn ha fatto a Demna, proiettata in Triennale durante la fashion week, il direttore creativo di Balenciaga ha detto di avere un lato socialista; numerosi altri personaggi online, poi, sposano col pensiero gli ideali di una società più giusta ed equa ma, col portafoglio, finanziano allegramente le corporation più distopiche e capitaliste di sempre. Ma, insomma, una moda anti-capitalista può esistere? 

Ne Il Capitale Marx criticava «i micidiali, insensati capricci della moda» parlando degli sprechi e del peso che l’industria aveva sui lavoratori già in pieno ‘800, influendo sull’economia domestica di molte famiglie che dipendevano dalla casuale, anarchica produzione dell’epoca notando come gli abiti di lusso di seta fossero prodotti da lavoratori stagionali vestiti di stracci. Un altro grande economista ottocentesco, Werner Sombart, definì la moda come «la figlia preferita del capitalismo» e, in fondo, tutti i molti discorsi che abbiamo fatto sulla sovrapproduzione, sul prezzo eccessivo degli abiti, sullo sfruttamento dei lavoratori e su come l’intero sistema-moda finisca per pesare sul Sud del mondo non fanno che confermare quest’ipotesi. La scrittrice Tansy Hoskins, autrice di Stitched Up: The Anti-Capitalist Book of Fashion, ha detto in un’intervista a Refinery29: «I marchi di moda non sono persone, non hanno personalità, speranze o sogni. Sono entità aziendali che hanno un solo obiettivo: fare più soldi dei loro concorrenti. […] Il cambiamento sociale non verrà mai dalle aziende di moda, ed è sbagliato credere che possa mai avvenire». Nel 2007, sulle pagine dell’International Herald Tribune, Suzy Menkes si fece questa domanda a proposito di Vivienne Westwood, designer notoriamente anti-capitalista: «Come ha osato presentare una mostra con messaggi anarchici, fare l'inchino in un abito aderente con la parola "propaganda" […], annunciare che lo spirito della sua mostra è "più si consuma, meno si pensa" e poi cogliere l'occasione per lanciare la sua collezione di spille da balia punk in diamanti?» Al che Westwood rispose, in differita: «Non mi sento molto a mio agio nel difendere la mia moda, se non per dire che la gente non è obbligata a comprarla. Bisogna consumare, però. Bisogna vivere. Se si hanno i soldi per poterselo permettere, allora è davvero bello comprare qualcosa da me».

@britishbeautycouncil Is buying less the way forward? The late Vivienne Westwood said: "Keep wearing things that you've really chosen and love, and that is status" #vivviennewestwood #fashiondesigner #vivvienewestwoodjewelry #fashion #clothing #designer #icon original sound - britishbeautycouncil

Volendo essere liberali, si potrebbe arguire che ciascuna azienda ha la libertà di promuovere i propri prodotti nella maniera che ritiene migliore. Il peso ideologico della scelta ricadrà poi sul consumatore finale che sposa o meno quegli ideali, se ne fa influenzare o, addirittura, li ignora del tutto al momento di investire il proprio denaro – sicuro è che il tipico cliente del lusso, il cliente-tipo di Dior, poniamo, non baderà troppo a dibattiti politici e filosofici più sottili una volta in boutique. È un tipo di cliente, in fondo, che partecipa con profitto alle logiche del capitalismo dato che è abbastanza ricco da acquistare prodotti di lusso. Un fatto assodato, comunque, è che oggi non scandalizza l’idea di un’ideologia trasformata in prodotto, ridotta a una t-shirt con uno slogan sopra - prima dei brand di moda, lo stesso è avvenuto con la celebre t-shirt di Che Guevara ad esempio, icona sopravvissuta precisamente grazie al sistema economico che intendeva sovvertire. Ma oggi chi può definirsi seriamente anticapitalista? Chi più chi meno, tutti ne partecipiamo e il nostro stesso dibattito politico rimane anche oggi ancorato a divisioni in “destra” e “sinistra” vecchie e inattuali quanto il Muro di Berlino. E finora nè la moda né nessun altro produttore di cultura vero o presunto ha alimentato o mandato avanti il dibattito al di fuori dei ristretti circoli della politica.