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Nel divario crescente tra ricchi e poveri, il lusso continuerà a vendere

Saranno i brand di prezzo medio a pagare le spese della crisi

Nel divario crescente tra ricchi e poveri, il lusso continuerà a vendere Saranno i brand di prezzo medio a pagare le spese della crisi

Con l’ascensore sociale che sembra essersi definitivamente arrestato e un divario tra ricchi e poveri che diventa sempre più profondo e abissale, ci si aspetterebbe che anche l’industria del lusso risenta dei moltissimi problemi che stanno gravando sulle economie mondiali. Eppure così non è: le revenue del gruppo Kering sono salite del 15% a 20 miliardi nel 2022, quelle di LVMH del 23% a 79 miliardi, anche quelle del Gruppo Prada sono cresciute del 21% a 4,2 miliardi di euro mentre quelle di Chanel sono salite del 22,9% a 15,6 miliardi di dollari. E tutto ciò considerando come il prezzo di qualunque bene, e dell’energia stessa, sia salito a dismisura nell’ultimo anno. Anche il fast fashion cresce: i profitti di Zara sono saliti a 23 miliardi nonostante un aumento dei prezzi, lo stesso accade a H&M che ha registrato revenue per più di 19 miliardi di euro nonostante una crescita molto più lenta mentre marchi come Shein e Primark sono più in salute che mai. Se i brand in cima e quelli in fondo alla catena alimentare della moda prosperano, però, a patire tutto sono i brand di fascia media. Questa oscillazione delle revenue riguarda aziende come Gap Inc., Kohl’s, Abercrombie & Fitch, Nordstrom e Macy’s, ma anche retailer come Zalando e SSENSE stanno avendo problemi mentre un gruppo come VF Corporation ha dovuto tagliare le sue aspettative per i ricavi che cresceranno quest’anno del 5% o 6% invece che del 7%, con Vans che dovrebbe performare mediamente peggio quest’anno. Anche Guess ha dovuto assumere «un approccio prudente» per le proprie previsioni fiscali, data la crescita non proprio esaltante dell’ultimo anno che il CEO ha attribuito a «gravi interruzioni della catena di approvvigionamento, carenze di prodotti creativi e costi alle stelle» a cui si è sommato un clima di sfiducia da parte del pubblico appesantito dall’inflazione che ha messo una grande pressione su tutte le componenti strutturali del brand. 

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Nel report The State of Fashion 2023 si legge in effetti: «Prevediamo che il settore del lusso supererà in crescita il resto dell'industria, poiché gli acquirenti facoltosi continueranno a viaggiare e a spendere, rimanendo così più isolati dagli effetti dell'iperinflazione». Sempre secondo McKinsey il lusso continuerà a crescere tra il 5 il 10% quest’anno ma al di fuori di questo mercato l’industria dell’abbigliamento «farà fatica a registrare una crescita significativa». E nello specifico sarà il mercato europeo a contrarsi, con una riduzione compresa tra l’1 e il 4% mentre «la Cina e gli Stati Uniti dovrebbero andare meglio, con una crescita rispettivamente tra il 2 e il 7% e tra l'1 e il 6%». Anche sulle pagine di Le Monde si parla di crisi del retail: le nuove generazioni comprano online, spesso secondhand, e i brand entry-level locali come Pimkie, Kookaï, Naf-Naf e Camaïeu sono in declino mentre in Italia, secondo il Corriere, il 59,7% degli italiani ridurrà le proprie spese nel campo dell’abbigliamento. Secondo Vogue Business, invece, le boutique multimarca indipendenti stanno soffrendo nel Regno Unito, con una media di 47 negozi chiusi al giorno nello scorso anno culminate, qualche giorno fa, nella chiusura del tempio della moda indie di Manchester, Oi Polloi, negli scorsi giorni che ha attirato anche i lamenti di Liam Gallagher. Per i brand questo significa una profonda revisione della maniera in cui operano sul piano degli inventari che, dopo i problemi alla supply chain dell’anno scorso, sono pieni di beni ammassati che ora è difficile spostare, creando una reazione a catena di ordini cancellati, sconti e vere e proprie emorragie nei profitti che si ripercuotono all’indietro in tutta la supply chain. 

Se da un lato la crisi del retail riguarda inventari e forniture, dall’altro lato c’è il pubblico diviso tra chi cerca l’occasione e chi l’investimento: si compra il fast fashion a prezzi stracciati, si compra il secondhand col migliore rapporto qualità/prezzo, si compra l’ultralusso – ma i vecchi brand da grande magazzino non ispirano più, troppo quotidiani per essere desiderabili, troppo costosi per essere economici. E chi compra nelle boutique di moda, tende anche a investire nei brand-rifugio, quelli che ispirano certezza dato che anche nell’ecosistema del lusso i brand neonati o rilanciati rimangono instabili: tra l’enorme numero di nuovi brand mai sentiti prima che affollano il calendario delle fashion week, le galassie di brand indipendenti e di nicchia che non vengono mai menzionati ma vanno avanti da anni con solide vendite e gli altri, come Trussardi o Victoria Beckham, che hanno negozi in centro e direttori creativi di grido ma si trovano in un perenne stato di crisi finanziaria tutto è sempre più confusionario. Altro fattore aggravante è il pricing che, nel medesimo contesto del lusso, può variare selvaggiamente con prodotti di qualità equivalente se non superiore che costano la metà o un terzo in meno a seconda che si esca da una boutique di Montenapoleone e si entri in un’altra: l’unico criterio è l’arbitrario posizionamento che un brand si è scelto, senza che la qualità cambi necessariamente da un brand all’altro o senza che un certo brand si specializzi in un certo prodotto in particolare. È chiaro che in un contesto di consumi che si contraggono, costi che lievitano e mercati che si saturano l’intero mondo retail stia sentendo il panico dell’insuccesso. Certo i vecchi e opposti modelli di business del lusso esclusivo e inaccessibile e anche dei prezzi abbassati fino all’inverosimile continuano a funzionare proprio in ragione della loro basilare, istintiva semplicità – due modelli la cui sopravvivenza a discapito delle soluzioni intermedie è il ritratto più impietoso di un mondo sempre più bianco e nero, sempre più polarizzato e diviso in fazioni opposte.