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Il 2023 sarà l’anno del ricambio generazionale della moda?

La vecchia guardia è, manco a dirlo, vecchia – ma bisogna capire quale sia la nuova

Il 2023 sarà l’anno del ricambio generazionale della moda? La vecchia guardia è, manco a dirlo, vecchia – ma bisogna capire quale sia la nuova
Giorgio Armani
Patrizio Bertelli & Miuccia Prada
Alain & Gerard Wertheimer
Rei Kawakubo & Adrian Joffe
Johann Rupert
Bernard Arnault

È difficile parlare di successione di una grande multinazionale senza sentire nella propria mente la colonna sonora dell’omonima serie HBO. Eppure la trama di Succession non deve essere troppo lontana dalla realtà quando si parla degli Arnault, la famiglia più ricca del mondo oltre che la dinastia regnante di LVMH, il cui patriarca, Bernard, detto anche “il lupo vestito di cachemire”, ha dato adito a supposizioni di un piano di successione che potrebbe aver presto inizio. Pur avendo riconfermato il proprio controllo sull’azienda lo scorso marzo, richiedendo di alzare il tetto massimo dell’età del CEO del gruppo (cioè se stesso) da 75 a 80 anni, Arnault ha nominato il secondogenito Antoine Arnault CEO e vice-presidente della holding Christian Dior SE (separata da Christian Dior Couture, cioè il brand che conosciamo, e Parfums Christian Dior), trasformando la principale holding di famiglia, Financière Agache, in una società in accomandita per azioni che controllerà la quota maggioritaria in LVMH che dovrebbe essere suddivisa in parti uguali tra i cinque figli – al momento tutti occupati in posizioni manageriali nei brand del gruppo.

Antoine Arnault rimarrà comunque CEO di Berluti e presidente di Loro Piana, oltre che responsabile della comunicazione e immagine di LVMH, detenendo quindi una posizione di potere simile a quello della sorella Delphine. Ancora poco è chiaro. Più trasparenti i piani di successione del Gruppo Prada, che ha nominato nuovi top manager e CEO ad interim con l’esplicito obiettivo di consegnare le chiavi del regno a Lorenzo Bertelli nel prossimo triennio. Altrove, senza che di successione si parli, l’idea di un ricambio generazionale si aggira negli headquarter dell’intera industria del lusso: Giorgio Armani ha 88 anni, Rei Kawakubo 80, Johann Rupert di Richemont ha 72 anni e tre figli, mentre Alain e Gérard Wertheimer hanno rispettivamente 74 e 71 anni e un totale di cinque figli. Viene dunque naturale domandarsi se il 2023 sarà l’anno in cui i grandi magnati della moda passeranno finalmente il testimone.

Bernard Arnault
Patrizio Bertelli & Miuccia Prada
Giorgio Armani
Alain & Gerard Wertheimer
Rei Kawakubo & Adrian Joffe
Johann Rupert

È francamente difficile identificare un anno preciso come lo spartiacque nella continuità generazionale di diverse aziende, ma potremm definire il 2023 come l’anno in cui la problematica della successione diventerà più chiara ed evidente. A precedere tutti nella questione delle successioni è stato Michael Kors che nel 2019 ha intascato la nomina a presidente onorario di Capri Holdings, ha ceduto presidenza e grado di CEO a John D. Idol e si è messo l’anima in pace dopo una vita di grandi successi commerciali. Nelle storiche aziende europee, invece, la cui conduzione più che familiare è dinastica, si verificano due tipologie di casi: quelli in cui l’argomento della successione è un tabù e quelli in cui si discute dei passi futuri del management in maniera più trasparente. Se da LVMH, ad esempio, è poco chiaro chi dei cinque figli di Arnault finirà per sedere sul trono presidenziale, anche se sono i maggiori Delphine e Antoine a possedere un primato per rilevanza amministrativa, e lo stesso BoF ha parlato della successione come di un “tabù”, Prada ha chiaramente indicato un erede nell’unico figlio di Miuccia Prada e Patrizio Bertelli; così ha fatto Brunello Cucinelli con le due figlie Carolina e Camilla.

Altri giganti dell’industria come François-Henri Pinault o Remo Ruffini non hanno mai parlato dell’argomento, anche se sono ancora dieci anni troppo giovani per iniziare a pensarci, mentre il gruppo Mayhoola, legato alla famiglia reale del Qatar e in particolare alla Regina Madre Moza bint Nasser Al-Missned, appare saldamente guidato e solido all’ombra dei grattacieli di Doha. Non di meno, è chiaro che siamo arrivati a un punto in cui la generazione che alla fine del secolo scorso ha creato quelle mega-istituzioni che reggono l’attuale industria della moda inizia a pensare o comunque a guardare all’orizzonte il proprio pensionamento – con loro finirà una maniera di fare affari e soprattutto di intendere la moda.

Se quella che potremmo definire come “la generazione dei fondatori” ha costruito diversi imperi nell’arco di carriere multi-decennali, ha fatto anche nascere con essi l’attuale status quo dell’industria della moda, un sistema fatto di profondi squilibri e soprattutto di pratiche commerciali aggressive oltre che scarsamente sostenibili. Dietro la democratizzazione della moda, la mercificazione e centralizzazione dei brand di lusso e dietro lo stesso modello di sviluppo di moltissimi brand di oggi ci sono proprio quei CEO sul cui operato, oggi, aleggiano dubbi e scetticismi: che la moda sia diventata estremamente commerciale, standardizzata e distante dagli originari valori di artigianalità e qualità senza compromessi, in un contesto di selvaggio consumismo, non è un segreto, la stampa lo dice da anni.

Molti lamentano il calo di qualità dei prodotti di lusso, altri i prezzi ormai saliti oltre ogni pensabile limite di guardia, altri ancora indicano nei CEO i freni a mano che limitano l’immaginazione della nuova schiera di giovani direttori creativi e designer mentre tutti lamentano un sistema di approvvigionamento che si arricchisce a discapito dei paesi a economia emergente e  dell’ambiente – che il ricambio generazionale negli uffici presidenziali dei brand possa cambiare questo sistema dalle fondamenta non è detto, né è scontato o facile, ma potrebbe essere possibile. Il compito della nuova generazione, dopo tutto, sarà quello di tenere in piedi ciò che la precedente ha costruito, migliorandolo.