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Tutti vogliono andare alla Fashion Week

Da TikTok a Instagram si è allargato il dibattito su chi dovrebbe avere il merito o il diritto di assistere alle sfilate

Tutti vogliono andare alla Fashion Week Da TikTok a Instagram si è allargato il dibattito su chi dovrebbe avere il merito o il diritto di assistere alle sfilate

Chi viene invitato alle sfilate, o meglio, chi ha il diritto di assistere ad uno show sono due domande che ritornano, con sempre più prepotenza, ad ogni Fashion Month, e che negli ultimi tempi sono diventate fonte di confronto e scontro, soprattutto online. A metà settembre The Cut aveva pubblicato un articolo, intitolato TikTok Helped People Scam Their Way Into Fashion Week, molto criticato sulla piattaforma di ByteDance, che descriveva i video in cui diversi creator avevano reso pubblici - o messo in vendita - gli indirizzi mail di alcuni dei PR più influenti della moda newyorchese, invitando chiunque a tentare la fortuna, chiedendo un invito per uno show o per un party. «Non credo ci sia nulla di male ad aiutarsi l'un l'altro», aveva dichiarato alla testata americana Sydney Bernhardt, una delle autrici di questi video. Continuando: «Inoltre volevo abbattere questo fenomeno del gatekeeping, aiutando anche altre donne.» 

@sydneybernhardt Run don’t walk! if you’re wanting to go to NYFW make sure to use this PR list + start emailing people! #nyfw #nyfw2022 #newyorkfashionweek #nyfw22 #nyfwtips #nyc #greenscreenvideo Super Freaky Girl - Nicki Minaj

Ecco, il gatekeeping, uno dei mali più imputabili all'industria della moda, mai abbastanza inclusiva, mai abbastanza aperta a tutti. Una "colpa" che diverse maison hanno cercato di espiare questa stagione, in particolare a Milano: si pensi alla grandezza della location e alle iscrizioni aperte di Diesel, al contest annunciato da Philosophy, alla performance di Moncler in Piazza Duomo. Iniziative ammirevoli che si scontrano con contraddizioni e limiti intrinsechi del settore (soprattutto perché l'inclusività va ben oltre una sfilata da dieci minuti). Da una parte ci sono i brand e le agenzie di pubbliche relazioni, che vogliono (e devono) invitare le personalità di rilievo dell'industria, come buyer o membri della stampa, i cosiddetti addetti ai lavori. Dall'altra, è diventata prassi consolidata invitare e spesso vestire volti noti di Instagram e TikTok, per catalizzare l'attenzione dei social intorno al proprio evento. Sono i posti occupati in prima fila da creator giudicati più o meno meritevoli a scatenare il dibattito online su chi debba andare alla FW (ancora non è chiaro quali siano i parametri con cui decretare un eventuale merito). C'è chi ritiene sia un sacrilegio, chi sostiene che senza di loro le sfilate non avrebbero più rilevanza, chi nomina sempre altri creator che avrebbero dovuto essere a Parigi, invece di quelli che ci sono. 

Tutto questo discorso ha molto a che fare con una certa romanticizzazione della Fashion Week, con un'idea di settimana della moda che ha molto a che fare con Il Diavolo Veste Prada e molto poco con le ore passate bloccati nel traffico, le giornate frenetiche, le sfilate anche dimenticabili a cui non si può dire di no. Nella sua ultima newsletter per il New York Times, Vanessa Friedman ha riassunto bene cosa significhi vivere un mese di show: «Immaginate di visitare un milione di gallerie d'arte moderna. Molto di ciò che vedete è derivativo, altro è semplicemente stupido, altro ancora noioso, ma ogni tanto c'è qualcosa di fantastico - qualcosa che inquadra l'identità in modo nuovo e rilevante - che cancella immediatamente dalla vostra mente tutte le altre sciocchezze e vi fa provare un brivido». Da qui deriva l'idea, che a New York ha trovato pieno compimento, che tutti debbano avere la possibilità di prendere parte alla FW, o almeno ai suoi party, costi quel che costi, anche imbucarsi. Sarà FOMO, sarà questa fissazione con l'idea di gatekeeping, ma sembra che tutti, specialmente su TikTok, vogliano andare alla Fashion Week. 

Forse consci di questa percezione un po' distorta, sono sempre di più influencer e creator che cercano di mostrare un lato più vero, per quanto ancora parecchio patinato, del mese delle sfilate, in un tentativo più ampio di raccontare il dietro le quinte dell'industria. Dai cambi d'abito dentro i van agli accorgimenti per sistemare vestiti rotti o troppo larghi, dai fitting fino all'assediamento dei fotografi, non c'è creator che non voglia far vedere una sua giornata. È forse questa sovra esposizione, questa continua narrazione di un momento già così mitizzato ad aver creato nel pubblico false aspettative e pretese. 

@valeria.lipovetsky Behind the outfit- @dior original sound - valerialipovetsky

È naturale sentire il desiderio di entrare a far parte di una cerchia senz'altro ristretta, percepita come cool, soprattutto da parte delle nuove generazioni, ansiose di scavalcare i cancelli, figurati e non, ma un certo tipo di establishment esiste per un motivo. Il buyer vede il prodotto che poi deciderà di includere nel suo store, il giornalista deve osservare gli abiti dal vivo per poter scrivere una recensione, i VIC sono invitati dai brand nella speranza che acquisteranno qualcosa visto in passerella. È un sistema vecchio e datato? Certamente, ma al momento nessuno è interessato a stravolgerlo, nonostante le onorevoli dichiarazioni della prima ora all'indomani della pandemia. 

Gli show incarnano il momento di massima visibilità e commercialità per una maison, che dunque sceglierà i suoi invitati in base a chi porterà maggior ritorno d'immagine e di attenzione mediatica. Al di là di campagne solidali e prese di posizione altisonanti c'è poco spazio per l'idealismo e per un progetto votato a cambiare lo status quo, i brand vogliono vendere, e tanto. Un risultato difficilmente raggiungibile con uno studente di moda entrato di straforo.