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Dopo Balenciaga, qual è il futuro delle show notes?

«Ho deciso di smettere di spiegare le mie collezioni e verbalizzare i miei design», ha scritto Demna

Dopo Balenciaga, qual è il futuro delle show notes? «Ho deciso di smettere di spiegare le mie collezioni e verbalizzare i miei design», ha scritto Demna

La sfilata di Balenciaga di ieri è stata, come al solito, piena di riferimenti, citazioni ed easter egg. E se ciò che avvenuto in passerella ha attirato gli occhi e l’attenzione di tutti (dopo tutto, si va lì per quello) un particolare assai interessante di questa collezione sono state le sue show notes in cui Demna spiega il suo desiderio di farla finita con le show notes: «Ho deciso di smettere di spiegare le mie collezioni e verbalizzare i miei design, ma di esprimere uno stato d'animo. La moda è un'arte visiva e tutto ciò di cui abbiamo bisogno è che venga vista attraverso gli occhi di qualcuno. Nel migliore dei casi, la moda non dovrebbe avere bisogno di una storia per essere venduta a qualcuno. O piace o non piace. Il set di questa sfilata è una metafora della ricerca della verità e dell'essere con i piedi per terra. Permettiamo a tutti di essere chiunque e di facciamo l'amore non la guerra». Un messaggio senza dubbio ironico da parte di un designer che ha dominato l’arte dell’ironia nel corso degli anni ma che risuona particolarmente vero in un’epoca in cui il divario di significato tra gli abiti che si vedono in passerella e le show notes che vengono consegnate alla stampa si allarga sempre di più toccando cerebrali vette di intellettualismo del tutto astruse rispetto alla collezione che viene presentata. Il messaggio di Demna rappresenta dunque la stanchezza dei designer rispetto alle narrative posticce che i team di PR si ritrovano a inventare? Siamo pronti a dire addio alle show notes?

Se volessimo fare un salto nel passato, e vedere cosa contenessero le show notes di una sfilata anni ’80, basterebbe guardare la press release degli show anni ’80 di Gianfranco Ferrè, conservate nell’archivio dell’omonima fondazione, e che consistono essenzialmente di un elenco puntato di argomenti come “i capi”, “i colori”, “i materiali” e via dicendo. La tipica press release di quarant’anni fa, insomma, conteneva informazioni sugli abiti che non diventavano né concettuali voli creativi né ampi ragionamenti che trascendevano il proprio scopo. In effetti molte delle show notes che vengono consegnate oggi alla stampa tendono a spiegare in molte righe di testo concetti sintetizzabili in poche frasi e pullulano, nel migliore dei casi, di termini come “iconico”, “archetipico”, “codici urbani”, “progressista” mentre, nel peggiore divagano senza una reale meta enunciando concetti slegati dalla collezione che deve sfilare. Il fatto è che spesso queste acrobazie intellettuali provano ad occultare povertà di idee e di ispirazioni sotto una coltre di frasi a effetto finendo per aumentare la sfiducia di chi legge nel sistema stesso della moda e nella sua capacità di ammettere la propria occasionale banalità - cosa non negativa in se stessa, l'importante rimane sempre la qualità degli abiti e dei design. L’opinione di Demna dunque è che alle collezioni di moda non serve necessariamente una storia: la moda dev’essere apprezzabile istintivamente, con gli occhi prima che con il cervello, come un fenomeno in sé e per sé. Si potrebbe leggere, in filigrana a questa opinione, una polemica verso quei designer che utilizzano uno storytelling troppo complicato. Se il concept di un certo abito non si spiega da sé, allora forse un concept non è troppo necessario – così come se una battuta ha bisogno di essere spiegata, non è una battuta che fa ridere

In effetti negli ultimi anni molte show notes sono diventate progressivamente più stringate: Hedi Slimane, ad esempio, senza lanciarsi in considerazioni filosofiche, scrive lo stretto necessario sulle proprie collezioni di Celine, magari contestualizzando la storia della location o della musica che accompagna la sfilata, ma senza perdersi in giri di parole; anche J.W. Anderson restringe le sue show notes a un succinto paragrafo in cui viene spiegato a grandi linee il concept della collezione, sui cui significati non si ricama più di tanto in seguito, mentre Gabriela Hearst da Chloé tende a utilizzare più battute ma solo per spiegare le caratteristiche tecniche della collezione. Dall’altro lato dello spettro, invece, si trovano poesie, opuscoli autobiografici, interi apparati cartacei completi di glossari, messaggi ecumenici che sembrano bolle papali e gelide coreografie verbali a metà tra la press release e i libri sulla teoria dell’arte di Giulio Carlo Argan per parlare di blazer o camice. Siamo colpevoli di cinismo se diciamo che, in un’epoca dove ormai tutto è stato già fatto e in cui tutti copiano tutti gli altri, le show notes “artistiche” non convincono più nessuno? Senza parlare, poi, di come i designer più apprezzati sono quelli di cui si possono oggettivamente apprezzare i vestiti. Dopo tutto, non dovrebbe servire una sfilata nel fango per spiegare al mondo che la moda dovrebbe tenere i piedi per terra.