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Quando la cultura skate adottò le Vans

Steve Van Doren, figlio del founder del brand, racconta la storia di Vans e della skate culture negli anni ‘70

Quando la cultura skate adottò le Vans  Steve Van Doren, figlio del founder del brand, racconta la storia di Vans e della skate culture negli anni ‘70
Tony Alva negli anni '70
Tony Alva negli anni '70
Tony Alva negli anni '70
Tony Alva negli anni '70
Tony Alva negli anni '70
Tony Alva negli anni '70

Steve Van Doren ricorda come Vans esplose: «Un momento importante è stata la metà degli anni ’70, quando gli skater e i ragazzi che guidavano la  BMX iniziarono a indossare le scarpe. Poi un altro nel 1982, quando Sean Penn andò fuori di testa per un paio di Vans a quadretti nel film Fuori di Testa – quello fu il momento in cui tutto il mondo iniziò a sapere chi eravamo, il momento in cui iniziammo a ricevere ordini dall’estero». Fino a quel momento il brand era rimasto un cult della scena californiana, diffondendosi tra la gioventù statunitense ma senza diventare il fenomeno mondiale che è oggi. «Nel 1966 mio padre aprì l’azienda e io avevo 10 anni e lavoravo con lui. Volevamo solo vendere scarpe e i valori di mio padre erano quelli di fare le scarpe di migliore qualità, al miglior prezzo e con il miglior servizio clienti». A questo punto viene naturale domandare al signor Van Doren, venuto a Milano per presentare il libro Authentic che raccoglie le sue memorie e presenziare all'apertura del nuovo flagship del brand in Via Orefici, come accadde che un’azienda che voleva solo vendere scarpe fosse diventata il brand di scarpe da skate per eccellenza. La risposta è di una semplicità spiazzante: «Gli skater iniziarono a indossare le nostre scarpe perché gli piaceva il grip della suola. Questo succedeva 45 anni fa, noi avevamo aperto 56 anni fa. Sono stati loro ad adottare noi […]. Se dobbiamo dirlo, sono stati loro a dare a noi questa cultura».

Una delle parti più interessanti della storia del brand, di cui chiedo a Steve, è l’origine del motto Off The Wall, che è un misto di cultura skate e di storia dell’azienda. «Il detto è stato inventato quando Tony Alva si staccò dal muro mentre skateava nel 1975», racconta Steve, e infatti la frase ha il doppio senso di “staccato dal muro” e di “originale, strano, unico”. Il detto entrò a far parte del linguaggio del brand quando, ai tempi in cui Vans creava scarpe customizzate, iniziò a indicare quel milieu di skater, amanti della BMX, cool kids e avventurieri californiani che possedevano, come lo chiama Steve, un «off-the-wall spirit» e dunque così iniziò la tradizione: «Quando qualcuno arrivava e ordinava una scarpa customizzata, noi mettevamo l’etichetta “Off the Wall” sul tallone mentre creavamo la scarpa. Dal 1966 al 1994, “Off the Wall” era su tutte le scarpe da skate customizzate».

Tony Alva negli anni '70
Tony Alva negli anni '70
Tony Alva negli anni '70
Tony Alva negli anni '70
Tony Alva negli anni '70
Tony Alva negli anni '70

Tony Alva, che è forse lo skater-simbolo della popolarità che la disciplina ha guadagnato negli anni ’70 diffondendosi in tutto il mondo, non fu solo il responsabile del motto Off the Wall ma anche di un altro importantissimo trend che dura ancora ora: quello del distressing. «Le Vans distrutte sono sempre state popolari», ricorda Steve, «fin da quando negli anni ’70 Tony Alva spaccava le scarpe». A quei tempi, mi spiega Steve, quel tipo di distressing era diventato il marchio di autenticità degli skater: «Riconoscevi subito chi faceva skate dalla maniera in cui l’esterno della scarpa si consumava». A quel punto sorgeva sempre una questione: le madri di quei ragazzi li mandavano in negozio per farsele riparare o sostituirle, ma «loro non volevano liberarsi delle loro scarpe – gli piacevano troppo». Allora la soluzione di Steve era semplice: «Sostituivo la suola interna, perché tutti le volevano comode, ma l’esterno rimaneva distrutto perché quello era il loro paio di scarpe preferito». La cosa più incredibile è che il trend non solo non si è esaurito nel tempo, evolvendosi al punto in cui i brand di lusso mettono in commercio sneaker pre-distressed, ma è anche rimasto autentico nella cultura skate: è comunissimo tra gli skater indossare un paio di scarpe, spesso proprio delle Vans, da poter distruggere durante gli allenamenti e che dunque vengono usate in maniera specifica per allenarsi e praticare la disciplina. Di recente, alcuni di loro hanno anche iniziato a usarle per uscire.

Parlando con Steve, che rievoca momenti in cui Vans era un semplice negozio di scarpe al 704 E. Broadway nella città di Anaheim, in California, viene spontaneo domandarsi cosa sia cambiato in un’azienda iniziata come un business familiare e poi trasformatasi in un impero globale e in una presenza fissa nella cultura pop. Ma la verità è che non troppo sembra cambiato, almeno per Steve. «Mia sorella è la vice-presidente delle Risorse Umane, è lei quella che conosce tutte le norme e le regole. Io sono più un pirata – se vogliamo fare qualcosa, facciamolo!» Non è insolito, ad esempio, se si visitano gli HQ del brand, trovare Steve grigliare carne al barbecue sul terrazzo – solo la scorsa settimana i presenti a questi leggendari barbecue erano 350 dice Steve.

Ma non solo i dipendenti e gli amici del brand: «Con la guerra in corso in Ucraina, cinque o sei settimane fa, sono andato a prendere circa duecentottanta casse di scarpe e vestiti per i più giovani e le ho spedite ai nostri negozi in Polonia perché le distribuissero ai rifugiati. È una cosa che una grande azienda impiegherebbe anni a fare». Per un’altra iniziativa, questa in collaborazione con il gruppo proprietario del brand, VF Corp, «abbiamo organizzato una svendita per i dipendenti e abbiamo detto a tutti che potevano avere tutto gratis, ma dovevano fare una donazione per l'Ucraina. Quel giorno abbiamo raccolto 21.000 dollari e la VF, la nostra società madre, ha contribuito con una somma identica e abbiamo raccolto a 42.000 dollari in un solo giorno, che abbiamo inviato per aiutare con servizi medici e cibo il popolo ucraino». Per sintetizzare, conclude Steve, sorridente come sempre: «È una questione di umanità. Le persone sono l’importante».