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Le vendite del Gruppo Prada sono aumentate del 41% l’anno scorso

Una strategia che mostra come potrebbero comportarsi altri brand di lusso in futuro

Le vendite del Gruppo Prada sono aumentate del 41% l’anno scorso Una strategia che mostra come potrebbero comportarsi altri brand di lusso in futuro

La performance del Gruppo Prada nel 2021 è stata definita eccellente: rispetto al 2020, le vendite sono aumentate del 41% per una revenue totale di 3,36 miliardi di euro – e questo include una crescita dei canali direct-to-consumer pari al 27% e una strategia retail fortemente accentratrice che ha visto una diminuzione dei grossisti del brand, un aumento delle vendite dirette tramite l’e-commerce, una taglio sui saldi e un triplo investimento in perfezionamento dell’e-commerce, del marketing e della comunicazione. Nel futuro, ci si aspetta di portare la revenue a 4,5 miliardi annui e superare definitivamente lo sbandamento portato dal 2020. Per farlo, il brand raddoppierà la percentuale delle vendite online dell’intero Gruppo Prada (che include anche Miu Miu, Church’s e Car Shoe) fino a farle diventare il 15% delle vendite totali mentre aumenterà la produttività dei negozi flagship del 30-40%. In generale, comunque, il Gruppo Prada ha incluso nelle proprie strategie un crescente controllo dell’intera catena produttiva, dalle vendite direct-to-consumer alla produzione in fabbrica vera e propria. Come si legge nel resoconto fatto da WWD della scorsa assemblea degli investitori:

«Prada sta espandendo le proprie capacità produttive. Ha aumentato l’organico nei suoi stabilimenti italiani di 100 persone nel 2021 e prevede di aggiungere 200 posti di lavoro nel 2022. L'azienda ha 23 siti produttivi e ha investito 100 milioni di euro in un nuovo stabilimento […] che è quasi completato e sarà pienamente operativo entro la fine del 2022. L'hub avrà un volume di movimentazione potenziale fino a 15 milioni di unità spedite all'anno e mira a migliorare i tempi di spedizione dell'e-commerce con l'80% delle vendite entro 24 ore. […] La produzione interna che dovrà rappresentare nel medio termine il 60% del totale, rispetto all'attuale 40%. Prevede di semplificare l'architettura delle collezioni in tutte le categorie per migliorare la vendita e ridurre le scorte. Ridurrà il numero di stili lanciati del 43% rispetto al 2019».

Come si può vedere da questi obiettivi aziendali, l’idea alla base della strategia è assumere il controllo di tutte quante le operazioni, gestendo ogni passaggio internamente, per poi vendere direttamente ai consumatori. La cosa ha due vantaggi su due diversi livelli: il primo e più ovvio è la migliore gestione ogni fase di produzione e vendita senza fare affidamento a terze parti che, come si è visto durante il lockdown, possono costituire un rischio per la collezione intera se fanno rallentare la supply chain; il secondo invece fa parte del più ampio movimento di “chiusura” del lusso, che ha portato già brand come Rolex e Chanel ad alzare i loro prezzi, e molti altri a tagliare i rapporti con i grossisti e vendere direttamente al consumatore, specialmente online. È chiaro che l’uso quasi esclusivo dei canali di vendita diretti comporta margini migliori e una più semplice gestione interna ma soprattutto un aumento della preziosa brand equity. Pare che la strategia sarà adottata anche da altri brand di lusso, costretti da un lato ad aumentare i prezzi dati i crescenti costi di trasporti ed energia ma anche sempre più decisi a rinunciare alla scontistica e attrarre nuove generazioni di consumatori – una strategia che si è dimostrata efficace anche per Burberry che nel trimestre conclusosi lo scorso Natale ha aumentato la retail revenue del 5% e si aspetta per la fine dell’anno fiscale un aumento del 35% degli utili operativi.

Dopo una crisi come quella del 2020, infatti, il mondo del lusso ha sentito il bisogno di una ridefinizione che ora sta arrivando sotto forma di un ristabilimento dei canoni dell’accessibilità e dell’aspirazionalità della moda, ma anche tramite una maggiore centralizzazione del potere gestionale da parte dei brand – un momento opposto, se vogliamo, alla ultra-diluzione di licenze e sub-label che caratterizzò la moda degli anni ’80 e ’90.