Vedi tutti

È giusto che i brand di moda entrino nel mondo del resell?

Da un lato offrono garanzie, dall’altro mettono a rischio l’indipendenza del mercato second-hand

È giusto che i brand di moda entrino nel mondo del resell? Da un lato offrono garanzie, dall’altro mettono a rischio l’indipendenza del mercato second-hand

Negli ultimi mesi, il mondo del lusso sembra aver scoperto l’enormità del mercato second-hand e, a giudicare dal numero di iniziative che i vari brand stanno sperimentando, è in atto un grande sforzo collettivo da parte dei fashion brand di assicurarsi una fetta di quel mercato. I fattori alla base di questo interesse sono larinnovata importanza della sosteniblità e dell’economia circolare, che è legata anche alla percezione che il pubblico ha del brand e infine il notevole volume di affari che ruota intorno a questo mercato, che già l’anno scorso si andava sviluppando con velocità maggiore di quello primario, comunque più grande.

La notizia più interessante in questo senso è quella del programma Brand Approved di Vestiaire Collective, che ha stretto la sua prima partnership con Alexander McQueen e mette in vendita item certificati dal brand a prezzi concorrenziali. Ma anche Gucci sta lavorando all’apertura di una simile boutique di resell digitale su TheRealReal, che ha già stretto partnership con Burberry e Stella McCartney; brand come Levi’s, Patagonia e persino H&M stanno sperimentando l’auto-resell su larga scala e, in generale, il mercato del resell dovrebbe raggiungere un volume d’affari da 51 miliardi di dollari entro il 2023, secondo una ricerca riportata da Business of Fashion. Ma cosa significa per un grande brand di luxury fashion intraprendere un’operazione del genere? 

Questo improvviso interesse nel resell ha due ordini di motivi. Il primo è istituzionale e riguarda i brand: riuscire a fidelizzare l’inafferrabile Gen Z è un po’ il Sacro Graal del fashion marketing di oggi, e per farlo serve raggiungere dei mark-up di prezzi bassi e percezione dell’etica del brand che soddisfino questo nuovo tipo di clientela consapevole e ultra-digitalizzata che spesso non può permettersi lo shopping in boutique ma impiega tempo e risorse nella ricerca di prodotti e brand in cui identificarsi e da cui comprare; dunque il servizio di resell sviluppato in proprio dai brand diventa ciò che un tempo erano le linee di diffusione, ossia un gateaway per trovare e fidelizzare nuove basi di consumatori. Il secondo ordine di motivi riguarda i consumatori stessi: la trazione che il lusso second-hand ha guadagnato è infatti una reazione al pricing selvaggio che domina il mercato di prima mano, una metaforica porta sul retro attraverso cui gli appassionati di moda con un budget possono intrufolarsi nel mondo del lusso. Siamo dunque di fronte a un caso da manuale di domanda e offerta: sulla carta è una partita in cui vincono tutti, tanto i brand che i consumatori. 

L’arrivo dei fashion brand nel mondo del resell pone un problema e ne risolve un altro. Il problema che pone riguarda i brand, storicamente non ostili al resell in sé ma da un sistema di compravendita privata di prodotti brandizzati che li estrometta dai guadagni. In fondo altri brand, ma non di lusso, hanno già implementato con successo i propri buy-back schemes ma sempre con obiettivi più orientati alla sostenibilità: dalle iniziative Arc’teryx Used Gear, Levi's Second Hand e Recycling di A.P.C. fino alla label The North Face Renewed e alla linea Worn Wear di Patagonia. Ma coinvolgere i brand di lusso potrebbe in futuro eliminare i pricing democratici di piattaforme come Vestiaire Collective in nome del profitto e dell’esclusività. Se questa preoccupazione esiste e continuerà a esistere, comunque, il caso di Alexander McQueen sembrerebbe al momento contraddirla: i capi rivenduti dal brand nella sezione Brand Approved hanno prezzi perfettamente in linea con quelli delle altre transazioni private che avvengono sull’app. Il rischio però non scompare da un momento all’altro: il fascino del resell è quello dell’affare conveniente che capovolge la dinamica verticale del lusso in un rapporto più democratico fra privati, l’alta finanza che controlla gruppi come Kering (uno dei cui investitori, Artemis, ha di recente acquistato azioni della piattaforma Goat) non può che rovinare il valore immateriale di questo tipo di esperienza, il piacere della scorciatoia. 

Il problema risolto invece riguarda la questione dell’autenticazione: lo scorso ottobre, ad esempio, Chanel ha accusato TheRealReal di mettere in vendita borse false, mettendo in dubbio la sicurezza dei processi di autenticazione mentre l’anno prima un’indagine di CNBC aveva scoperto che i criteri dell’autenticazione non erano dei più rigorosi. Questa è solo la punta dell’iceberg di un problema che, lungi dal riguardare solo TheRealReal, coinvolge tutto quanto il mercato second-hand. Pur essendo tutti gli item autenticati sulla carta, infatti, capita spesso che un’etichetta di composizione sia stata tagliata, un branding non sia più visibile chiaramente o un capo vintage degli anni ’70 e ’80 presenti solo un’etichetta al collo, senza altre tracce di branding, che potrebbe benissimo essere stata cucita per gonfiare il valore dell’item. Tutto cambia se è il brand stesso ad autenticare il prodotto: il lato positivo dell’istituzionalità è appunto la garanzia di controllo – qualcosa che interessa tanto i consumatori quanto i brand, che vogliono appunto controllare la loro immagine tramite il loro prodotto. 

Soppesati i pro e i contro, comunque, resta innegabile che il mercato second-hand abbia raggiunto oggi proporzioni gigantesche – una diretta conseguenza di quel desiderio artificialmente gonfiato dall’aggressivo social media marketing dei brand. È naturale che gli investitori vogliano ricavare profitto dal mondo sempre più corporate e istituzionale del resell, ma allo stesso tempo bisognerà adottare delle misure di contenimento per preservare la democraticità dei suoi marketplace, che è anche la principale causa del loro fascino.