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Storie di ordinaria follia dal mondo della moda milanese

Alcuni giovani creativi ci hanno raccontato che persone orribili siano i loro boss

Storie di ordinaria follia dal mondo della moda milanese Alcuni giovani creativi ci hanno raccontato che persone orribili siano i loro boss

Conosciamo tutti la storia dietro il celebre ruolo di Meryl Streep ne Il Diavolo Veste Prada. Col passare del tempo il film è diventato una vera miniera di meme e Miranda Priestly è assurta a simbolo di quanto riesca a essere orribile un datore di lavoro nel campo della moda. Si dice in effetti che il film sia basato sulla caporedattrice di Vogue America, Anna Wintour - e il personaggio di Miranda Priestly è presto diventato un elemento ambivalente per chi lavora nella moda: da un lato il suo personaggio è umoristico, la parodia perfetta di un'autorità nel settore del fashion; dall'altro è diventata la rappresentazione anche troppo realistica di tutti quei boss che spadroneggiano nel mondo della moda, rovinando la vita ai propri stagisti e sottoposti. 

A Milano, boss terribili quanto e più di Miranda Priestly abbondano, e forse in misura maggiore che altrove. Per questo abbiamo contattato alcuni giovani creativi del settore per farci raccontare le loro storie più spaventose e tutti gli episodi in cui hanno sofferto a causa di un capo sfruttatore, avido o semplicemente stronzissimo.

Tutti i nomi che verranno usate negli articoli sono di fantasia.

 

La vampira che non paga gli stipendi

"Ho lavorato con questa donna alquanto nota dell'industria milanese e non sarei in grado di contare tutte le volte in cui mi ha maltrattato mentalmente ed emotivamente farmi sentire come un totale pezzo di m***a incompetente, del tutto dipendente da lei per sopravvivere. A volte mi chiamava alle 7 del mattino (2 ore prima dell'ingresso in ufficio) semplicemente per minacciarmi. Era pura malvagità psicopatica e per tutto il periodo in cui ho lavorato per lei, non mi ha mai pagato uno stipendio e alla fine mi ha fatto inseguire personalmente i suoi clienti per avere la mia paga da loro. Ha approfittato del fatto che fossi un immigrato in questo paese per indurmi a lavorare come uno schiavo e completamente gratis dietro la promessa di un contratto che non è mai arrivato." 

- Eddie, intern


"È troppo grassa, nascondetela in cucina"

“Quando ho iniziato a lavorare come dresser un paio di anni fa, per un certo showroom multimarca qui in città, ho assistito a scene che mi hanno lasciata basita. Durante uno dei press day non c'era una divisa specifica: ci hanno detto solo di indossare tutto nero o bianco. Un giorno, la mia collega venne vestita con una camicetta bianca aperta sulla schiena che esponeva una certa porzione di pelle. Quando è arrivato il proprietario, ha iniziato a lamentarsi del peso della ragazza dicendo che non faceva parte dell'immagine del suo showroom ed era molto più arrabbiato per il peso della ragazza di quanto non fosse per la camicetta. L'ha rinchiusa nella cucina dello showroom per 3-4 ore mentre le ordinava una maglietta bianca XXL ."

- Claudia, dresser


La spilorcia che non scuce i soldi del taxi

“La mia prima esperienza è stata come una stagista non-pagata in una pubblicazione abbastanza nota a Milano. Il mio compito era raccogliere i vestiti dal set e poi riportarli in 6-7 diversi showroom in giro per la città. La prima volta che l'ho fatto ero molto desiderosa di lavorare, quindi non ho fatto domande ma sono andata avanti e alla fine sono riuscita a trascinare oltre 10 sacchi di vestiti sulla metropolitana. La seconda volta ho deciso di prendere un taxi e in seguito ho chiesto un rimborso alla mia supervisor e la sua risposta è stata che non poteva farmi un rimborso perché non le avevo fatto sapere prima. La terza volta ho chiesto del rimborso prima di partire e lei mi ha detto che non sarebbe stato un problema. Quando sono tornata con la ricevuta e ho chiesto il rimborso, lei disse che la ricevuta sembrava falsa e che in ogni caso non ero ancora al livello per ricevere i rimborsi perché nella moda bisogna pagare le proprie quote nel settore prima di aspettarti qualcosa in cambio."

- Rebecca, stagista 


The Handmaid's Tale

“C'era una fashion producer con cui ho lavorato solo due anni fa. Anche se all’inizio mi aveva detto che avrei fatto cose come andare a eventi e incontrare nuove persone, il mio ruolo consisteva nel ritirare il suo bucato in lavanderia, ordinarle il pranzo e anche prendere sua figlia a scuola. Una sera eravamo in ufficio a lavorare fino a tardi per chiudere un progetto importante e dato che quel giorno non avevo pranzato e volevo ordinare la cena, le ho chiesto se voleva qualcosa. Mi ha risposto chiedendomi se pensassi di meritare il cibo sapendo che non avevo completato il mio compito. Le ho spiegato che non avevo pranzato e che avevo fame e mi ha minacciato dicendo che se avessi ordinato qualcosa prima di aver finito, sarei stata licenziata immediatamente e senza vedere lo stipendio."

- Simona, stagista 

Guerilla marketing

"Quando firmai il mio primo contratto da stagista per un magazine in città, mi fu detto che avrei preso parte a delle attività di marketing e promozione. Ovviamente credevo che si trattasse di imparare qualcosa sul marketing: mi sbagliavo. I miei capi misero me e un'altra mia collega a fare volantinaggio in stazione per il loro assurdo materiale promozionale - e ci costrinsero a farlo di primissima mattina, anche in pieno inverno, esposti al freddo e al gelo per ore intere. Dopo un po' fu chiaro che non avevano i soldi per pagare dei veri promoter. Inoltre ci rimproveravano quando pensavano che non le avessimo smerciate bene abbastanza - anche tramite minacciose chiamate telefoniche. Una volta ci costrinsero a consegnare migliaia e migliaia di opuscoli durante il Fuorisalone, durante il weekend e sotto il sole battente. Una delle ragazze si sentì male e dovette tornare a casa. Più tardi, uno di loro chiese a una delle mie colleghe di non segnalare gli straordinari nel rendiconto degli orari lavorativi che doveva fare alla sua università".

- Matteo, assistente marketing


La razzista

“Il tempo che ho passato a lavorare per un datore di lavoro terribile è stato un vortice di tossicità passato giorno dopo giorno ad assistere all'abuso verbale degli assistenti, al fat-shaming di potenziali giovani stagiste e alla costante manipolazione emotiva di tutte le persone che circondavano la mia superiore. Per piegare i suoi sottoposti alla completa obbedienza minacciava di rovinare la nostra reputazione e distruggere le nostre future carriere qui a Milano. Quando sono andato via di lì, sono rinato. Inseguire per mesi una donna come lei per ricevere uno stipendio - una che in quanto donna bianca si sente autorizzata a usare la parola "N***o" e dire che "Nessuno vuole che le donne transgender facciano pubblicità alle donne vere"; qualcuno che cerca di prendersi il merito per qualsiasi cosa tu faccia da solo e schiaccia l'autostima tua e degli altri per avanzare e poi si reinventa come attivista non è una persona che vedo nel mio futuro come parte del progresso e del cambiamento “.

- Louis Pisano, scrittore


Il lato più assurdo di questa situazione è che molti di questi atteggiamenti non sono punibili per legge in quanto l'abuso emotivo non è un reato. Secondo lo studio legale Scott Wagner & Associates, per parlare di abuso sul posto di lavoro, bisogna essere membri di una qualche minoranza oltre che dimostrare di essere stato vittima di atteggiamenti basati su appartenenza etnica, aspetto fisico, religione, sesso, età o disabilità. E molti di questi incidenti si sono verificati al di fuori di questi confini

Al momento, lo strumento più potente che le vittime di questo tipo di situazioni hanno è l'uso dei social media. Sebbene le cose stiano lentamente migliorando, ci vorrà ancora un po' prima che la classe dirigente dell'industria della moda adotti comportamenti più umani e abbandoni il proprio falso senso di superiorità. Con questa nuova era di trasparenza digitale, molti hanno l'opportunità di denunciare queste situazioni e fare pagare ai propri maltrattatori le conseguenze del loro abuso nascosto. La realtà è che la moda ha bisogno di un sistema che supporti meglio e garantisca la sicurezza dei suoi lavoratori più giovani, eliminando ogni possibilità di sfruttamento, non solo emotivo, ma anche fisico e finanziario.