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L'ammirevole bruttezza dei Tabi Boots

L'accessorio di Martin Margiela continua a dividere opinioni 32 anni dopo la sua creazione

L'ammirevole bruttezza dei Tabi Boots L'accessorio di Martin Margiela continua a dividere opinioni 32 anni dopo la sua creazione
Prada SS13

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Qualche giorno fa, sulle passerelle della Haute Couture parigina, durante lo show di Maison Margiela Artisanal hanno fatto la loro apparizione delle nuove sneaker ibride, che nascono dalla fusione tra la Instapump di Reebok e un'altra silhouette leggendaria, quei Tabi Boots che hanno sdoganato lo split toe nell'industria fashion. È una interpretazione contemporanea e inedita quella realizzata da John Galliano, attuale direttore creativo della Maison, che ci ricorda l'importanza assoluta di un accessorio, se non ancora di più di un dettaglio, quella divisione tra alluce e le altre dita del piede, che continua a suscitare opinioni contrastanti e divisive, senza mai perdere il proprio ruolo di protagonista fuori e dentro le passerelle. 

La storia dei Tabi di Maison Margiela

Tutto ciò che riguarda Martin Margiela è circondato da un’aura di mistero e a tratti di sacralità. La sfilata del 1988 che segnò il debutto del designer belga, così come dei Tabi Boots, ci riporta ad un’epoca in cui le sfilate di moda erano delle performance d'arte. I modelli di Margiela sfilarono infatti con ai piedi dei Tabi Boots intinti nella vernice rossa, così da lasciare innumerevoli impronte su un pezzo di tessuto che sarebbe stato poi trasformato in un gilet la stagione successiva. Fin da subito l'accessorio che avrebbe segnato il futuro e il successo dello stilista belga appare divisivo, generando nel pubblico e nella stampa dell'epoca opinioni contrastanti. Qualche anno più tardi, in occasione della leggendaria sfilata allestita in una stazione dismessa della metro di Parigi, Natalia Aspesi descriverà su La Repubblica lo stile di Margiela definendolo di 'ammirevole bruttezza'. Si potrebbero riassumere con queste due parole il successo di Margiela e l'eredità dei Tabi Boots. Non c'è nulla che cattura lo sguardo come un dettaglio inaspettato, un accessorio a cui l'occhio non è abituato, forse brutto, ma in definitiva attraente.

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Il successo dei Tabi però non è immediato. Non avendo budget per produrre altre scarpe, Margiela era infatti solito ridipingere i Tabi invenduti della collezione precedente per riportarli in passerella la stagione successiva. Il primo ad intuire la genialità e il potenziale successo delle stravaganti scarpe è Geert Bruloot, proprietario del primo store in assoluto a vendere i Tabi, ad Anversa. Con il passare delle stagioni i Tabi Boots entrano nell'immaginario collettivo, trasformandosi nell'accessorio più chiacchierato, discusso e acquistato dell'industria della moda, consacrando Margiela alla storia del costume. 

Volevo creare la scarpa invisibile, l'illusione di un piede nudo che cammina appoggiato ad un tacco grosso e spesso. [...] I Tabi Boots sono il lascito più importante della mia carriera. Sono riconoscibili, continuano ad avere successo da 25 anni, senza mai essere copiati. 

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Che cosa significa "Tabi"?

L’ispirazione maggiore che si nasconde dietro i Tabi sono gli omonimi calzini giapponesi, risalenti al XV secolo, periodo in cui il Giappone iniziò ad importare cotone dalla Cina. La struttura e la forma dei calzini nascono da una necessità precisa, cioè quella di poterli indossare con le tradizionali calzature giapponesi. Molto presto i calzini, in particolare la loro colorazione, diventano il simbolo di appartenenza a determinate classi sociali: blu per contadini - nella vita quotidiana -, bianchi per le occasioni importanti. I samurai potevano scegliere qualsiasi nuance ad eccezione del viola e dell’oro, riservati alla nobiltà. Molto presto, vista la loro particolare struttura e l'utilizzo di tre diversi sezioni di tessuto, i calzini compiono l’evoluzione finale, trasformandosi in vere e proprie calzature grazie all’introduzione di una suola in gomma. Le Tabi si trasformarono quindi in Jika-Tabi che letteralmente significa “contatto con il suolo”. Il primo ad introdurre questo tipo di calzatura è Tokujirō Ishibashi, fratello del fondatore della ben nota Bridgestone, azienda che con la gomma ha una certa familiarità. Questo tipo di scarpa si diffuse immediatamente, diventando presto la calzatura prediletta da operai, contadini, fabbri ed altri lavoratori, che consideravano lo split toe comodo e adatto ai loro movimenti. Una forma così riconoscibile aveva però anche i suoi svantaggi: è grazie alle impronte che lasciavano i soldati giapponesi infatti che gli australiani erano in grado di rintracciarli e stanarli durante la Seconda Guerra Mondiale. 

Il tabi nello sport e nella moda

Il resto del mondo scopre per la prima volta i Tabi durante la maratona di Boston del 1951, vinta da Shigeki Tanaka con ai piedi un paio di Tabi firmate Onitsuka, quella che oggi conosciamo come ASICS. È infatti sbagliato pensare che i Tabi siano appannaggio solo di Margiela, sono al contrario molti i brand che hanno sperimentato e dato la loro interpretazione di questa calzatura così particolare. L’impatto sul mondo occidentale non fu dei migliori. Soprattutto negli Stati Uniti le Tabi erano visto con sospetto, quasi con disgusto.

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Non sarà fino al 1996 che Nike provò ad introdurre lo spilt toe in una delle sue calzature, le ormai ricercatissime su eBay Nike Air Rift. In questo caso il gigante di Beaverton decise di dedicare la silhouette ai corridori del Kenya, realizzando diverse versioni della scarpa nei colori della bandiera dello stato africano. Ma anche in questo caso, l'accoglienza fu tiepida, tanto che Nike fu costretta ad aspettare fino al 2014 prima di introdurre nuovamente questo modello di scarpa, aiutata anche dalla diffusione dell'Health Goth, il trend che concepisce uno sportswear prevalentemente nei toni nero e con ispirazione goth.

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Anche Prada ha portato in passerella la sua versione dello split toe nella collezione SS13, in cui i richiami alla tradizione e ai costumi giapponesi erano molteplici. Nonostante diversi tentativi di imitazione e copie più o meno palesi - il cui esempio più celebre fu quello firmato da Demna Gvasalia, ex alumno di Margiela, nella collezione di Vetements FW18, lo split toe dei Tabi Boots è rimasto iconico e pressoché inimitabile. Negli ultimi anni i Tabi sono stati fonte di ispirazione anche per brand dal carattere più sportswear, come Suicoke, maharishi, Abasi Rosborough o ISLMY

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Dalla loro prima apparizione nel lontano 1988 i Tabi Boots hanno continuato ad essere una parte imprescindibile di ogni collezione di Margiela, proposti stagione dopo stagione in decine di versioni differenti, spaziando tra boot, sneakers, ballerine, platform, variando anche in materiali e colorazioni. Restano iconici i cosiddetti Topless Tabi della collezione SS96: il minimalisimo raggiunge la sua forma più alta grazie alla semplice suola abbinata a del nastro adesivo, per creare manualmente il cinturino della scarpa da avvolgere attorno alla caviglia. 

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Sebbene le Tabi originali giapponesi siano sempre state unisex, bisognerà aspettare fino al 2017 per vedere i primi Tabi Boots da uomo. Questa mancanza però non ha mai intaccato la fama e l'aura di iconicità dei boots, che sono diventati dei veri e propri status symbol, segno di appartenenza ad un gruppo sociale ben preciso, sicuramente artistico, contro corrente, che segue la moda cercando di riscriverne le regole, fregandosene di quelle attuali, creativo, proud, queer. È una e vera propria comunità quella che abbraccia il culto di Margiela e delle Tabi, che si esprime prevalentemente su Instagram, attraverso interi account dedicati all'estetica e alle creazioni dello stilista belga, come @margielatab1 o @margiela.archive.

Di quella comunità fa sicuramente parte anche Solange, che, ospite del Tonight Show With Jimmy Fallon, si è esibita in una performance strabiliante in un vestito di Dion Lee e Tabi boots in pelle nera, portando sulla tv nazionale americana l'accessorio più discusso degli ultimi trent'anni, rivelando un inedito parallelismo tra la sua persona e quelle scarpe in quanto a lungo appartenenti ad una nicchia pronta ad essere celebrata e apprezzata ad un livello superiore, partendo da una nicchia e arrivando al mainstream, aprendosi al grande pubblico senza tradire la propria identità. 

Come successe a suo tempo con le Triple S di Balenciaga, o più recentemente con le Vibram FiveFingers, il mondo della moda ama e si nutre di creazioni inaspettate, uniche nel loro genere, che sfidano i limiti del bello, e soprattutto del brutto, perché è quello che provoca una discussione, un dibattito, a volte anche uno scontro. Tutto ciò che rifugge la noia e la banalità è ben accetto, ancora di più se è brutto, perché il brutto è attraente, il brutto è eccitante. Forse perché è più nuovo, come ci insegna Miuccia Prada.