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Com'è vedere Sanremo a trent'anni

Un racconto di Sanremo - Parte I

Com'è vedere Sanremo a trent'anni  Un racconto di Sanremo - Parte I

Seguire il Festival di Sanremo alla soglia dei trent’anni significa vivere un bel rollercoaster emotivo: l’entusiasmo con cui lo seguo è la conseguenza del fatto che sto invecchiando o solo una forma di sadismo che mi fa godere di fronte al cringe? Bella domanda. Di sicuro, comunque, nessuno è così basic da seguire il Festival per la musica - sul palco dell’Ariston si viene a officiare un collettivo carnevalesco rituale nazionale, la musica ne è solo uno spesso dimenticabile derivato. Saltiamo a piè pari tutte le fasi iniziali della kermesse: dopo i siparietti full boomer di Fiorello e Amadeus, viene annunciato Achille Lauro. I miei occhi ruotano verso l’alto pronti alla nuova tarantella di quest’anno: cavalcherà sul palco nudo come Lady Godiva oppure scenderà dall’alto su una croce vestito da alieno di Avatar? Tutto è possibile. Stranamente i theatrics quest’anno sono ridotti al minimo: strizzato dentro un paio di pantaloni di pelle, si autobattezza (Lauro che fa il trasgressivo? Groundbreaking) procurandoci così la prima polemica della serata. 

Subito dopo di lui, si torna nei binari del mainstream: arrivano in rapida successione Yuman e Noemi con le solite canzoni d’amore un po’ enfatiche che ho già scordato; Fiorello fa una scenetta sui no-vax (che, personalmente, si sarebbero meritati molta più cattiveria, ma sempre meglio di niente); e poi un vivacissimo Gianni Morandi la cui joie de vivre mi ritrovo a invidiare. Infine La Rappresentante di Lista, sulla cui apparizione darò adesso alcuni statemement che mi rifiuto di elaborare meglio in futuro: 1 - il vibe che danno è quello di due cattivi del Batman di Tim Burton; 2 – chiunque indossi una tiara dopo gli otto anni e al di fuori di una famiglia reale europea è una gigantesca red flag che cammina; 3 – incredibile che la cosa più trasgressiva che si può fare a Sanremo siano le dichiarazioni comuniste, il vero grande tabù del nostro paese. 

Dopo Michele Bravi, arrivano i Maneskin, freschi dei loro exploit americani, già così internazionali da non sembrare nemmeno vicini agli adorabili e sexy ragazzi di Roma che avevamo conosciuto con X-Factor. Amadeus fa un siparietto bizzarro in cui li va a prelevare al loro albergo su un golf-cart fornendoci grande materiale per futuri meme, dopodiché cantano Zitti e Buoni, same old same old, ma la band rimane una gloria nazionale o, in boomerese, come li definisce Amadeus: «Un fenomeno MON-DIA-LE». Massimo Ranieri, anche lui più vitale a 70 anni di me oggi, va e viene e poi arrivano Mahmood e Blanco. Per un istante la distorsione spazio-temporale che circonda Sanremo in stile Wandavision si interrompe e torniamo all’Italia del 2022.

Sono contento di sapere che si può fare musica moderna al festival. Chi pensava che avremmo potuto chiamare Mahmood daddy, un giorno? La canzone è molto emotivo-sospirante-urlata ma in fondo Sanremo è Sanremo, no? Dopo tanta bellezza e una tensione sessuale sul palco che non si vedeva dai tempi di Madonna e Britney arriva Matteo Berrettini, che si prepara a diventare il prossimo fusto nazionale ora che Roberto Bolle ha superato i 40 e Raul Bova è entrato nel Don Matteo-verse. Segue a ruota Ana Mena, con un pezzo che so già che sentirò per tutta l’estate nelle discoteche siciliane il prossimo agosto. La canzone è un trash piacevole, però, un po’ da soundtrack del Tagadà, un po’ sbrigliata come ai tempi di Paola e Chiara. Chissà se, remixata, non possa diventare una hit da suonare all’Ortigia Sound System di quest’anno.

In rapida successione: Rkomi versione biker un po’ Soldato d’Inverno, un po’ Snake Eyes di G.I. Joe, un po’ Ghost Rider nella versione di Nicolas Cage ma con un look piacevolmente aggressivo che è stato rinfrescante vedere dopo una sequela di noiosi blazer; ritorno dei Maneskin con una nuova canzone, questa volta lacrimosa in ottimo stile sanremese, che fa un po’ rimpiangere i tempi in cui Damiano faceva la pole dance in diretta nazionale; esibizione di Dargen d’Amico (altra grandissima icona) a cui vorrei ricordare che i pantaloni vanno fuori dalle sneaker alte ma che onestamente aveva un bel completo di Alessandro Vigilante - occhiali a parte. Poi, il letale intermezzo. Nell’ordine: la Muti condivide ricordi dei grandi attori con cui ha lavorato riassumibili tutti con la frase «Erano brava gente»; sponsorizzatissimo siparietto di Orietta Berti e Rovazzi su una nave da crociera per presentare Dimartino e Colapesce; intervento di Claudio Gioè che promuove la nuova fiction di Rai 1 che, da quanto ho capito, dovrebbe essere la più completa compilation di stereotipi sui siciliani dopo Il Padrino – Parte II e, infine, Giusy Ferreri, elegantemente bardata in Philipp Plein.

A questo è seguito il momento più cringe della serata: Raoul Bova in moto elettrica e in veste di prete cattolico con croce in bella vista appesa al collo che annuncia che diventerà il sostituto di Don Matteo (inserire qui dichiarazioni trionfali su quanto a lungo sia durato Don Matteo) con un momento di disturbante autocoscienza in cui Amadeus ammette che la fiction Rai funziona perché è così rassicurante e da “sonni tranquilli” che potrebbe fungere come un’alternativa al Valium. Dopo questo siparietto promozionale per la serie tv più “rassicurante” d’Italia arrivano sul palco di Meduza con Hozier. Ora, non so chi dei lettori fosse presente durante la indie wave dei primi 2010s, ma Hozier è un grande cantante che forse non meritava di essere l’accessorio vocale dei Meduza ma che personalmente amo quanto me stesso - dunque molto.

Il momento in cui è apparso è stato l’unico guizzo d’entusiasmo che ho provato da quando avevo visto Blanco con un mantello. Dopo questo raro momento d’internazionalità, l’obbligatorio omaggio a Battiato ci riporta coi piedi per terra e, infine, la serata finisce (stranamente a un orario decente, grazie a Dio) con la classifica della Sala Stampa che, surprise surprise, vede Mahmood e Blanco in testa.