
Il mito urbano del Leoncavallo A pochi giorni dallo sgombero, ripercorriamo la storia di uno dei centri sociali più longevi d'Italia
Il Leoncavallo non è mai stato solo un centro sociale. È stato un’idea di città, un laboratorio di cultura e conflitto che a Milano resiste da cinquant’anni, un'epopea urbana scandita da occupazioni, sgomberi, rinascite e nuove forme di socialità. Nato il 18 ottobre 1975 in una fabbrica dismessa di prodotti farmaceutici in via Leoncavallo 22, nel cuore di un quartiere a forte tradizione operaia e popolare, il centro ha preso il nome dalla via stessa, diventando in breve tempo un simbolo della sinistra extraparlamentare e dei movimenti di contropotere. In quegli anni complessi, tra manifestazioni e scontri, il Leoncavallo si presentò come un’alternativa autogestita ai servizi carenti nelle periferie urbane: nacquero stamperie, radio indipendenti, scuole popolari per l'alfabetizzazione, spazi per il teatro, la musica e l'attivismo femminista.
Negli anni Settanta e Ottanta il Leoncavallo fu ben più di un luogo occupato: era un punto di incontro per studenti, lavoratori, artisti e musicisti. La sua funzione di polo aggregativo fu tragicamente confermata nel 1978, quando Fausto e Iaio, due giovani frequentatori del centro, furono uccisi in circostanze mai chiarite. La loro morte rese il Leoncavallo un simbolo di una generazione colpita dalla violenza politica degli Anni di Piombo. Negli anni successivi, le sue mura videro stratificarsi esperienze culturali eterogenee: dal punk ribelle ai movimenti antinucleari e studenteschi. Le sue sale divennero catalizzatori per la musica indipendente, ospitando leggende internazionali come i Fugazi, i Sonic Youth e i Public Enemy, accanto a spettacoli teatrali, mostre e laboratori creativi.
Le vicende legali e immobiliari hanno scandito gran parte della sua storia. Dopo anni di contenziosi, sgomberi e demolizioni parziali, nel 1989 l’area storica fu acquistata dalla famiglia Cabassi, noti immobiliaristi milanesi, che avviarono una lunga battaglia legale con il collettivo. Questo braccio di ferro culminò nel 1994, sotto la giunta di Marco Formentini, con lo sgombero definitivo della sede storica. Dopo un passaggio transitorio in via Salomone, il collettivo occupò l’ex cartiera di via Watteau 7, in zona Greco, dove il Leoncavallo ha trovato la sua casa più longeva e strutturata, resistendo per oltre trent’anni.
Nella sede di via Watteau, il centro ha vissuto la sua stagione più prolifica. Lì sono nati laboratori di serigrafia, ciclofficine, spazi teatrali, la scuola popolare di italiano per migranti e una fitta agenda di concerti che spaziava dalla techno al reggae, dal jazz alle feste dub che richiamavano migliaia di giovani. Il centro ha anche ospitato il progetto di rigenerazione urbana del DaunTaun, lo spazio sotterraneo che nel 2003 divenne il primo evento pubblico di street art in Italia, oggi tutelato dalla Soprintendenza ai Beni Culturali come testimonianza di un'arte urbana che ha segnato un'epoca. Ogni anno, eventi come la Festa della Semina e la Festa del Raccolto hanno scandito i ritmi del centro, trasformandolo da luogo di conflitto a bene comune non riconosciuto.
Il Leoncavallo è stato teatro di ben 133 tentativi di sgombero, come riportato in diverse inchieste giornalistiche, e al contempo di infinite trattative politiche. Il suo destino è sempre rimasto in bilico tra la legalizzazione e la rimozione, tra la sua funzione di luogo di aggregazione popolare e l’ostilità di chi lo considerava un’anomalia. Quando nel 2021 chiuse Macao, un altro grande centro sociale milanese, il Leoncavallo restò l’ultimo baluardo di una tradizione urbana fatta di occupazioni e spazi autogestiti. Per molti era diventato un'infrastruttura culturale che suppliva alle mancanze della città ufficiale, un rifugio e un laboratorio per i giovani esclusi dal mercato mainstream.
Raccontare la sua storia significa ripercorrere le profonde trasformazioni di Milano, dai quartieri operai degli anni Settanta alla metropoli globale del Duemila. Il Leoncavallo ha incarnato l’altra faccia della città: inclusiva, radicale, conflittuale e spesso scomoda. Migliaia di persone hanno attraversato le sue sale non solo per ballare o ascoltare musica, ma per formarsi, per incontrarsi e per vivere una socialità diversa.
Il cinquantesimo anniversario del Leoncavallo arriva in un momento fragile, dopo l’ennesimo sgombero dell’agosto 2025 dalla sede di via Watteau. Il futuro del centro resta incerto, tra ipotesi di un trasferimento a sud nel quartiere Corvetto e la possibilità di un nuovo compromesso politico. Ma al di là della sua collocazione fisica, il Leoncavallo è già entrato nella storia urbana e culturale italiana. È diventato simbolo di resistenza e di reinvenzione, testimone di una città che cambia e di generazioni che non hanno mai smesso di cercare spazi per immaginare alternative. Forse il Leoncavallo non è solo un luogo: è una storia collettiva che continua a riscriversi, anche dopo cinquant’anni.


























































