
I terzi luoghi come resistenza culturale
Dall’Italia all’estero, i giovani hanno bisogno di spazio

16 Maggio 2025
«Non esiste una cultura bassa o alta. Alto o basso è sempre il punto di vista di chi guarda»
C. Valerio
Organizzazione sociale, urbanismo e comunità umane sono i tre ingredienti di ogni civiltà. Dai tempi dell’antica Grecia, quando ad Atene si creava un’assemblea di cittadini liberi che si identificano come un insieme separato dal resto dei “barbari”, la piazza, nota come agorà, era uno spazio multifunzionale che ospita tanto il commercio quanto l’attività politica, la socializzazione e persino la divulgazione culturale. Anche nell’Antica Roma il Foro rappresentava l’unione di pianificazione urbana e ingegneria della società – e dopo tutto gli stessi antichi romani, specialmente quelli delle classi popolari, conducevano una vita molto diversa dalla nostra dato che l’idea di passare del tempo in casa non esisteva. Si mangiava fuori, ci si lavava fuori, si socializzava fuori: è solo naturale che gli spazi urbani di quella e di altre civiltà si organizzassero naturalmente per rispondere a quei bisogni. E nel corso dei millenni quest’idea restò: al di là dei grandi palazzi nobiliari e dei luoghi religiosi, la storia del Medioevo e dell’età moderna è disseminata di luoghi d’incontro e di attività sociali. Insieme alla chiesa e all’osteria, la vita di intere città si è svolta per interi secoli nelle piazze e nelle vie – tanto che in certi casi, come quello emblematico della Firenze rinascimentale, ad esempio, certe vie erano associate a determinate professioni. Fino agli anni ’70 e ’80 l’istituzione restò: nelle città italiane era abituale vedere interi drappelli di anziani che passavano il tempo semplicemente sedendosi tutti insieme all’esterno e gruppi sempre più nutriti di giovani riunirsi in luoghi di incontro pubblici che divennero, per generazioni a venire, le “piazzette” dove ci si riuniva prima che i social media e le telecomunicazioni consentissero di parlarsi e organizzarsi a distanza. Un’evoluzione organica e progressiva che è stata del tutto interrotta dall’era digitale.
Con la nascita e la diffusione dei social media le dinamiche sociali sono irrimediabilmente cambiate. Eliminando la necessità del dover conoscere persone “analogicamente”, i social media hanno tolto ai giovani la motivazione di popolare questi spazi. Inoltre, se prima i luoghi pubblici erano predisposti per accogliere quel tipo di “assembramenti”, con lo shock culturale e sociale del Covid divennero quasi qualcosa da evitare. I ritmi sempre più furibondi della vita quotidiana, la diluizione dell’identità culturale dei singoli luoghi e le problematiche emerse a causa dei problemi comunicativi causati dai social media hanno determinato un declino di quei terzi luoghi di cui, a cinque anni dal lockdown, i giovani sentono ancora il bisogno. Il mondo del passato, dagli orizzonti più ristretti ma più controllabili, è stato sostituito dalla sconfinata distesa del mondo online – un luogo babelico dove le informazioni si frammentano, le opinioni si scontrano in attriti sempre più incendiari e crudeltà e manipolazione emergono protetti dall’anonimato. Non c’è da stupirsi se oggi si parla di alienazione di giovani generazioni a cui la società moderna, il neoliberismo e il capitalismo hanno tolto ogni centro di gravità fisico, morale o ideologico che sia. Tutti problemi a cui, come singoli, non possiamo dare una risposta compiuta. Possiamo però provare a risolverli partendo dalla realtà più immediata: quella delle nostre città, delle nostre strade, dei nostri terzi luoghi.
Cosa sono i terzi luoghi?

Alla base della definizione c’è una teoria del 1989 del sociologo Ray Oldenburg, che descrive la casa come primo luogo, il lavoro come secondo e i posti di vita comunitaria come terzi luoghi, ovvero spazi dove ci si può rilassare, conoscere nuove persone e, allo stesso tempo, sentirsi parte di un ecosistema. Non tutti i luoghi destinati al relax e al tempo libero sono effettivamente terzi luoghi: secondo Oldenburg, i «third places» devono avere come caratteristiche intrinseche l’essenza informale e non pretenziosa, oltre a invogliare i membri a iniziare conversazioni spontanee. Insomma, basti pensare a un bar di quartiere, a un centro culturale, alle palestre, biblioteche e librerie: tutti posti di aggregazione sociale dove ci si può incontrare e passare il tempo in maniera ludica. Il concetto è semplice ed è anche qualcosa che negli anni siamo stati abituati a vedere nei media, come in ogni sit-com di rilievo degli anni ’90 e dei primi anni 2000, dove c’era sempre un bar o un caffé come punto di ritrovo principale dei protagonisti. In Italia, la tradizione ha sempre voluto che fossero le strade e le piazze i principali luoghi della socialità giovanile. Per i paninari degli anni ’80 c’era San Babila a Milano, mentre nella capitale Piazza San Calisto è da generazioni una colonna portante della movida. Questa tradizione negli anni si è persa, sia per colpa dell’urbanizzazione – come nel caso di Milano – sia per le prese di posizione delle istituzioni nel controllare la vita notturna, soprattutto nel panorama post-pandemia. Al contempo, hanno trovato nuova vita i member’s club che, prendendo spunto dal modello anglosassone, sono arrivati anche sul suolo italiano. Tutta una serie di vicissitudini e fattori che hanno contribuito a una perdita piuttosto evidente di spazi d’aggregazione per tutti.
Il fenomeno è stato confermato recentemente da un’analisi di Scomodo che evidenzia in maniera palpabile la mancanza di spazi socio-culturali dedicati alle persone più giovani in Italia, specialmente se si parla di spazi aperti e indipendenti, orientati all’incontro piuttosto che al consumo. D’altronde, sebbene bar e ristoranti rappresentino da sempre il fulcro della socialità italiana, hanno una natura transazionale che si scontra con la realtà economica degli under-30 del nostro Paese. C’è poi anche l’aspetto culturale (nella sua concezione più essenziale): nei luoghi di ristorazione, la convivialità è spesso incentrata su una chiacchiera leggera, a tratti frivola. Anche qui emerge un’altra problematica relativa ai terzi luoghi italiani: Scomodo sottolinea che, mentre sul territorio nazionale sono censiti più di 132 mila bar e circa 3.500 sale cinematografiche, mancano dati certi sugli spazi sociali gratuiti e indipendenti dedicati alla socialità giovanile. È qui che ci si inizia ad avventurarsi nella realtà complessa e frammentata della gioventù italiana.
Per fare cultura, i giovani hanno bisogno degli spazi giusti
Le principali critiche che gli adulti rivolgono alle nuove generazioni riguardano il loro disinteresse per la cultura e il loro attaccamento spassionato al telefono e ai social media. Se però parte di questo problema deriva dagli anni della pandemia e del lockdown, dall’avanzamento di TikTok e dalle pressioni algoritmiche, bisogna anche riconoscere che per fare cultura ci vogliono gli spazi – e questi spazi sono sempre meno. Le discoteche e i cinema stanno chiudendo, la vita notturna costa troppo e le relazioni sono diventate sempre più liquide (tanto che si parla di una relationship recession). Come può un giovane coltivare la propria mente, esporsi e confrontarsi con chi la pensa uguale o diversamente da lui, se non sa dove farlo? La cultura intesa come sviluppo di conoscenza può essere uno strumento di unione e connessione per le nuove generazioni, ma per farlo servono i luoghi giusti. Anche se a cambiare le cose sono alla fine dei conti sempre i giovani, in questo momento il problema resta in mano alle istituzioni, che devono accettare il fatto che il rinnovamento di un Paese non passa per i beni privati, ma per gli spazi aperti e la de-burocratizzazione. Quando smetteremo di pensare allo spazio come fonte di denaro, quando cominceremo a riconoscere che il futuro dell’economia di un Paese è tanto in mano ai giovani quanto al governo che li cresce, allora torneremo a fare cultura. Del resto, la mancanza di cultura è figlia dell’alienazione. E lo sviluppo, invece, avviene dove c’è dialogo.
«Gli spazi non sono neutrali», afferma Cecilia Pellizzari, direttrice editoriale di Scomodo che da anni lavora per costruirne di nuovi. «Quelli che desideriamo e vogliamo costruire sono spazi generativi, gestiti e vissuti da una comunità reale, che siano in grado di offrire centinaia di attività e servizi e che siano in reale dialogo con il territorio». A conferma di questo impegno, Scomodo ha lanciato una campagna di azionariato popolare per aprire cinque nuovi spazi in cinque anni. «Il 73% della nostra generazione dichiara di sentirsi sola e l'87% che esperienze di isolamento hanno impatti distruttivi sul proprio benessere mentale», aggiunge Pellizzari. «Per noi gli spazi sono una risposta».
nss edicola come resistenza culturale
Stanno nascendo terzi luoghi in tutto il mondo. A Parigi, i cosiddetti «tiers-lieux» dispongono atelier, studi e aree per l’esposizione artistica a centinaia di creativi che si ritrovano sotto lo stesso tetto per ragioni diverse, ma che riescono così a stare insieme, a confrontarsi e a condividere le loro conoscenze. L’associazione Le 6b, ad esempio, conta più di 200 artisti residenti e ospita continuamente mostre, concerti e altri eventi culturali. Nel Regno Unito, nel frattempo, le sale da ballo si stanno ripopolando grazie al ritorno di movimenti come il Northern Soul e alla nascita di club dedicati in ogni angolo del Paese. In Italia, nss edicola nasce con lo stesso intento: riunire le nuove generazioni, dare loro uno spazio in cui potersi raccontare ed esplorare nuovi punti di vista. Da spazio marginalizzato a punto cruciale per lo sviluppo della cultura locale, l’edicola è in grado di amplificare le nuove forme di cittadinanza urbana, di raccontare il presente e di formare il futuro. Da nss edicola realtà diverse entrano in dialogo, dall’informazione all’arte, dall’attivismo all’editoria, confluendo ovviamente nel grande bacino che è la community di nss. Ciascun quartiere che ospita nss edicola, a Milano, a Roma, a Napoli e adesso anche in altre città internazionali, riscopre una vitalità che fino a prima era smarrita. Dal lancio delle edicole permanenti a Milano e Napoli, i dati che emergono evidenziano la volontà dei giovani di trovare una community a cui appartenere: ad ogni evento, più di 30mila persone si ritrovano nelle edicole di Piazza Buozzi e di Piazza San Pasquale generando complessivamente un engagement di 20 milioni di utenze sui social e 500 mila menzioni dei profili ufficiali di nss edicola su Instagram e Tiktok. Il successo di nss edicola in Italia conferma la necessità delle nuove generazioni di trovare e di appartenere a spazi del genere. È la dimostrazione di quanto un luogo pubblico, aperto alla diffusione di idee e di svago, possa cambiare le cose non solo per una generazione, ma per una città. Contribuire alla socialità urbana, alla memoria collettiva e alla cultura materiale è, dopotutto, resistenza.