FUORIMODA REVIEWS – La prima piattaforma online per recensire i fashion show

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Il sogno di un lavoro nel design e la realtà che nessuno racconta «E adesso cosa faccio?», il grido collettivo di una generazione di creativi

Tutti vogliono lavorare nel design. È una vocazione che spesso si accende già tra i banchi del liceo, quando l'idea di diventare stylist, interior designer, product developer o creative director si fa strada attraverso profili Instagram curatissimi, le sfilate luccicanti delle fashion week, render fotorealistici, video emozionali e università che promettono un futuro fatto di progetti iconici e collaborazioni internazionali. Il design, nel nostro immaginario collettivo, è sempre stato un lavoro divertente: sinonimo di creatività senza confini, dinamismo e impatto visivo immediato. Ma pochi raccontano davvero cosa succede quando si esce dalle aule universitarie e ci si confronta con la realtà concreta del mercato, cercando di trasformare quella passione accesa in una carriera sostenibile. Cosa accade oggi ai giovani che scelgono di lavorare nel mondo del design e della moda, adesso che è cambiata radicalmente la relazione tra formazione e lavoro? Quali sono le competenze richieste davvero dalle aziende, e perché – tra l'avanzata inesorabile dell'intelligenza artificiale, la saturazione di alcuni segmenti di mercato e l'importanza sempre maggiore dello storytelling personale – non basta più essere semplicemente bravi? Lo abbiamo chiesto a designer e professori che supportano da anni giovani creativi che sognano in grande. 

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Partiamo dal quadro generale: secondo il report Design Economy 2024 promosso da Symbola, il sistema del design in Italia coinvolge oltre 352.000 professionisti, un valore aggiunto di 3,2 miliardi di euro che posiziona il nostro Paese ai vertici europei per numero di imprese attive e per il valore culturale e commerciale prodotto. Eppure, dietro questi numeri incoraggianti si nasconde una frattura significativa. I laureati magistrali in design, pur trovando occupazione entro cinque anni con una percentuale solida attorno all’89%, vedono questa percentuale dimezzarsi drasticamente: solo il 46% riesce a lavorare stabilmente e coerentemente nell’ambito specifico per cui ha studiato. Nel frattempo, la disoccupazione giovanile italiana si aggira ancora intorno al 20% e, paradossalmente, sempre più aziende dichiarano di non riuscire a trovare profili qualificati per i nuovi ruoli creativi che si stanno formando, soprattutto nel digitale, nella progettazione ibrida e nella gestione di progetti complessi. Ciò significa che le opportunità ci sono, il mercato esiste, ma il salto tra università e mondo del lavoro resta pieno di ostacoli: c'è un disallineamento generale tra competenze offerte e richieste. Le aziende, infatti, segnalano spesso la necessità di profili con maggiore esperienza pratica, abilità relazionali e una mentalità orientata al problem-solving, che non sempre vengono sviluppate a pieno nei percorsi accademici tradizionali.

Secondo Cristian Visentin, designer e apprezzato docente al Politecnico di Milano, oggi i giovani sono indubbiamente più consapevoli e propositivi rispetto a 20 anni fa. «Prima c'era un forte distacco tra università e aziende, quasi due mondi paralleli. Ora i ragazzi scelgono percorsi più mirati, sono più intraprendenti, ma spesso faticano a capire che la formazione non finisce con la laurea». Per Visentin, lavorare nel mondo del design corrisponde a «un processo continuo, un investimento su sé stessi che va ben oltre la disciplina tecnica, [che] forma anche sul piano della tenacia, della consapevolezza di sé, e dell’adattabilità alle mutevoli esigenze del mercato.» Una delle trasformazioni più profonde riguarda proprio il modo in cui ci si presenta: «un bel progetto, tecnicamente perfetto, non basta più. Serve un’identità forte, visibile anche nel portfolio, che racconti non solo cosa sai fare, ma chi sei. L’immagine che ti costruisci è importante, ma deve essere autentica e coerente con ciò che vuoi dire, un vero e proprio personal brand che comunichi i tuoi valori».

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Anche per Simone Riva, architetto e docente presso la Nuova Accademia del Design, le difficoltà non vanno ignorate, ma analizzate. «Il mondo del retail oggi è complesso e richiede una visione a 360 gradi. Non basta saper disegnare o avere buone idee. Ci sono decine di figure iperspecializzate che devono operare in sinergia: dall’illuminotecnica alla profumazione ambientale, dalla strategia distributiva basata su dati alla sicurezza normativa. Un giovane designer che impara a coordinare queste competenze diverse ha un enorme potenziale di crescita.» Secondo Riva, ci sono due lacune principali nei profili junior emergenti: da un lato la carenza di competenze relazionali – la capacità di lavorare in team, di ascoltare, discutere in modo costruttivo, trovare soluzioni condivise e negoziare – e dall’altro una scarsa conoscenza dei materiali e delle tecniche di produzione. «È la parte materica che spesso manca, quella comprensione profonda dei limiti e delle possibilità di un materiale, la curiosità costante per ciò che cambia nel mercato manifatturiero e per le nuove tecnologie. Senza questa base solida, il design rischia di rimanere solo un'idea su carta, anziché trasformarsi in una realtà tangibile e funzionale.»

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Ma oggi c’è anche un altro elemento a ribaltare le regole del gioco e a ridefinire le competenze: l’intelligenza artificiale. Visentin è chiaro su questo punto: «I giovani designer non devono temere l’AI, ma devono imparare a usarla come un potente alleato. È uno strumento che può creare un valore aggiunto enorme, soprattutto nei contesti aziendali più strutturati, dove l'ottimizzazione dei processi è cruciale. Capire come funziona e come integrarla nel proprio flusso di lavoro può generare opportunità anche nei settori più tradizionali». Il messaggio è evidente: nel design contemporaneo, la figura isolata e 'romantica' del 'genio creativo' che lavora in solitudine ha lasciato il posto a una nuova identità professionale. I giovani devono imparare a lavorare in squadra, sapersi raccontare con efficacia, navigare con agilità tra i mondi digitali, ma anche avere una cultura visiva solida, aggiornata e trasversale. Non serve scegliere tra specializzazione estrema e versatilità generica, ma serve costruire una visione personale forte, capace di contaminarsi con altre discipline e con gli strumenti più innovativi.

Questa esigenza di concretezza e consapevolezza diventa ancora più evidente se si guarda al fashion system. Tra i settori più seducenti e più raccontati – grazie anche all’influenza amplificatrice dei social media, che ne mostrano solo la facciata patinata – la moda è oggi una delle mete preferite dei creativi. Ma è davvero un settore inclusivo e meritocratico, o solo un miraggio ben impacchettato da lustrini e influencer? Secondo Giorgio Ripamonti, neolaureato in Fashion Design al Politecnico di Milano, la risposta è chiara e disincantata: «Oggi lavorare nella moda è diventato di moda. I social danno un’immagine utopica, dove tutto sembra a portata di mano e dove la celebrità è dietro l'angolo. Ma la realtà è radicalmente diversa: è un ambiente ultra competitivo, saturo di aspiranti, dove più che élitario direi che è spietatamente selettivo. E la selezione è brutale.» Ripamonti racconta di aver iniziato a interessarsi alla moda attraverso il fenomeno delle sneaker, tra il 2016 e il 2018, quando erano diventate un simbolo di appartenenza sociale, un linguaggio estetico. Da lì è nata la curiosità per il prodotto, il disegno, i primi tentativi di creare un brand amatoriale e infine la decisione di iscriversi all’università. «Durante il mio percorso ho capito che non basta la passione, per quanto ardente. Serve sacrificio quotidiano, trasparenza nelle intenzioni, e una grande capacità di reggere la pressione e le delusioni. Tutti vogliono emergere, ma non tutti accettano il confronto impietoso, le critiche severe, e i fallimenti che sono parte integrante del percorso. Per me il sogno è ancora vivo, bruciante, ma so che questa non sarà la strada per tutta la vita in termini assoluti. È il lavoro della mia vita, ma non necessariamente per sempre.»

Oltre all’estetica, oggi il fashion system è dominato da dinamiche complesse che riguardano visibilità algoritmica, narrazione del brand e costruzione di un’identità aziendale. Ma spesso i grandi gruppi – come LVMH o Kering – cercano più esecutori di direttive creative che veri e propri visionari, più l'efficacia di campagne di marketing ben oliate che rotture estetiche capaci di innovare davvero. Il risultato? Poca originalità, molta omologazione e una rincorsa ossessiva al trend del momento, che soffoca la creatività. In un contesto simile, i giovani potrebbero essere davvero la chiave per sbloccare una nuova fase di innovazione e autenticità, ma faticano a trovare spazio. Le università sono sempre più affollate e preparano talenti, ma il numero di reali opportunità per emergere resta basso, e mentre studiare moda è diventato mainstream, entrare davvero nel sistema e lasciare un segno resta un’impresa titanica. Così, in Italia, chi ha una voce fuori dal coro trova spesso più spazio altrove, in capitali emergenti per la moda e il design come Berlino, Barcellona, Shanghai o Seoul. Perché Milano, pur essendo centrale per il lusso e la tradizione, è ancora troppo legata a modelli consolidati per accogliere il nuovo.

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E allora, cosa serve davvero per farcela oggi nel design? Non il talento assoluto, che è solo un punto di partenza, ma una visione personale chiara. Una cultura visiva solida, aggiornata e trasversale a più discipline. Una capacità relazionale forte, di lavorare in team e di negoziare. E la volontà instancabile di formarsi anche fuori dai percorsi canonici. Il design – che sia prodotto, interni o moda – richiede la stessa cosa: tenacia, curiosità insaziabile e il coraggio di costruirsi uno spazio anche quando il mercato sembra saturo e sembra che non ce ne sia. Parlando con i professori, ascoltando le voci di chi sta cercando di farcela davvero, ci si rende conto che la domanda «E adesso cosa faccio?» è diventata il grido silenzioso di tutta una generazione di creativi che si ritrova a rincorrere un ideale difficile. Il design è ancora un sogno, sì, ma va riscritto ogni giorno con pragmatismo e passione, senza dimenticare l'importanza di una community di supporto - non a caso, questo articolo è stato scritto con il supporto di Gaia Turboli, neolaureata in Fashion Styling and Communication.