
Quanto è iconico il design dei lidi italiani Tra tradizione, identità visiva e trasformazioni nei lidi più storici d’Italia
Da Nord a Sud, le spiagge italiane non sono semplicemente luoghi di svago e relax sotto il sole cocente bensì sono autentici microcosmi culturali, complesse strutture urbanistiche temporanee, spazi semi-pubblici dove estetica, memoria collettiva e funzione sociale si intrecciano in modi spesso inattesi. Il design degli stabilimenti balneari – tra cabine sbiadite che hanno visto generazioni passare, ombrelloni a righe che disegnano orizzonti infiniti e chioschi colorati dove il profumo del gelato Sammontana si mescola all'odore della salsedine – è una delle forme più stratificate, evocative e, eppure, meno studiate del paesaggio italiano. E forse è giunto il tempo di prenderlo sul serio, riconoscendone il valore oltre la superficialità. Pensiamo alla Versilia, con i suoi stabilimenti ordinatissimi e monocromatici: tende bianche e lettini equidistanti, una “mise en place” balneare che sembra replicare il rigore borghese dell'architettura di Forte dei Marmi. Oppure al Lido di Venezia, dove lo stile liberty delle cabine storiche resiste all’omologazione, e dove l’estetica è fatta di dettagli patinati e nostalgici, come la scritta “Hotel Excelsior” in caratteri serif anni ’30. A Sud, i lidi di Gallipoli o di Mondello mescolano geometrie vintage e caos visivo, tra colori accesi, cartellonistica e materiali plastici sopravvissuti a decenni di sole.
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Questo patrimonio estetico è spesso ignorato o visto con condiscendenza, ma in custodisce realtà una forma di design spontaneo, legata al clima, ai materiali disponibili, alle economie locali e soprattutto ai rituali del tempo libero italiano. E se oggi alcuni stabilimenti sembrano invecchiati male, è anche perché non abbiamo mai saputo tutelarli o valorizzarli come meritano. In Italia ci sono oltre 30.000 concessioni demaniali marittime a uso turistico-ricreativo, di cui circa il 50% sono stabilimenti balneari. Secondo un report di Legambiente 2023, in alcune regioni come Liguria, Emilia-Romagna e Campania, oltre il 60% delle spiagge è occupato da stabilimenti. Dati che sottolineano come l’estetica balneare non sia marginale ma parte integrante del paesaggio costiero e dell’identità visiva nazionale. Eppure mentre in passato i bagni erano luoghi intrinsecamente popolari, accessibili a diverse classi sociali e spesso gestiti da famiglie locali che ne incarnavano lo spirito comunitario, oggi il trend è un altro: quello della privatizzazione spinta e della gentrificazione del mare. Nascono beach club esclusivi, progettati da architetti di grido e spesso finanziati da grandi gruppi, che propongono palette neutre e "internazionali", lettini a baldacchino e zone VIP inaccessibili alla stragrande maggioranza. Luoghi dove l’esperienza estetica è curata al dettaglio e impeccabile – ma anche omologata, decontestualizzata, spesso indistinguibile da Ibiza a Mykonos a Dubai. Il rischio è di trasformare la costa in una successione di non-luoghi globalizzati, perdendo la specificità e la possibilità di inclusione che caratterizzava il lido tradizionale.
Cosa perdiamo, però, quando omologhiamo tutto? Perdiamo la memoria storica dei luoghi e delle persone, i riferimenti culturali che ci connettono al passato, insieme a quella grammatica balneare fatta di colori primari carichi di allegria, di font calligrafici artigianali sulle insegne dei chioschi, di piastrelle economiche ma immediatamente riconoscibili che rivestivano i banconi, e di ombrelloni che recavano con orgoglio lo sponsor del gelato preferito dell'infanzia. Si perde, insomma, non solo un'identità locale, ma un linguaggio visivo collettivo che ha plasmato l'immaginario di intere generazioni di italiani. Ecco perché oggi, nel pieno della crisi climatica che minaccia le coste e di un overtourism che rischia di snaturarle, è urgente ripensare il paesaggio balneare non solo in chiave estetica, ma anche etica, sociale e culturale. Bisogna chiedersi: chi può davvero permettersi questa nuova estetica? E, soprattutto, cosa perdiamo in termini di identità, accessibilità e senso di comunità nel processo di questa trasformazione?













































