Dovremmo lavorare con questo caldo? Come il cambiamento climatico cambierà la maniera in cui lavoriamo
Tutto è cominciato con un post su LinkedIn. A Dindigul, in India, la sindacalista Thivya Rakini ha perso i sensi durante l’ispezione di una fabbrica dove le lavoratrici passavano nove ore al giorno con una temperatura di 38,6°C. Raccontando dell’esperienza in un post che ha fatto il giro delle mail e dei DM di attivisti della moda di tutto il mondo, Rakini ha raccontato le condizioni in cui operano ogni giorno migliaia di lavoratrici del tessile: turni lunghissimi, pressione costante per produrre di più e uniformi sintetiche in ambienti surriscaldati, mentre i dirigenti siedono in uffici climatizzati. Il suo è solo uno dei tanti casi che, a partire dalla moda e dai lavoratori nelle fabbriche di paesi dal clima caldo come India, Pakistan, Bangladesh ma anche la Turchia, fa riflettere su come le temperature crescenti influenzeranno le politiche del lavoro. Parlando del tema, Vogue Business ha citato un’analisi della Cornell University, secondo cui entro il 2030 fino a 65 miliardi di dollari di esportazioni tessili potrebbero essere compromessi da eventi climatici estremi solo in Cambogia, Bangladesh, Pakistan e Vietnam. Il tema del calore si inserisce in un quadro più ampio di policy aziendali per questi lavoratori nei confronti dei quali non si fa abbastanza e che rende sempre più concreta la prospettiva di integrare temi riguardanti gli effetti del cambiamento climatico nelle policy riguardanti i i diritti dei lavoratori – misure che magari ora sono provvisorie ma che, con ogni probabilità, diventeranno una realtà permanente con la quale confrontarsi. E il problema non riguarda più solo i paesi asiatici, del Medio-Oriente o dell’Africa ma anche l’Europa. In questi giorni, tutti noi ce ne stiamo rendendo conto.
Gli effetti del caldo sul lavoro, in effetti, non sono più un tema confinato ai paesi tropicali come dimostra il caso dell’operaio 47enne morto in un cantiere a San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna, mentre stendeva del calcestruzzo. In Italia, la risposta è arrivata qualche giorno fa con la firma del “Protocollo sulle condizioni climatiche estreme” da parte di sindacati, datori di lavoro e Ministero del Lavoro. Una soluzione che prevede l’uso di di ammortizzatori sociali in caso di stop al lavoro per caldo estremo; esclusione delle ore di cassa integrazione per eventi climatici dai limiti massimi previsti per legge; l’obbligo di valutare il “rischio microclima” nei piani di sicurezza aziendali e di fornire aree d’ombra, bevande e protezione adeguati, la riorganizzazione di turni e orari, una sorveglianza sanitaria potenziata e formazione specifica sul rischio caldo. E già moltissime regioni hanno introdotto ordinanze che vietano il lavoro all’aperto tra le 12:30 e le 16:00. In Lombardia il divieto è in vigore dal 2 luglio al 15 settembre, ma misure simili sono state prese anche in Abruzzo, Veneto ed Emilia-Romagna. Altre soluzioni sono state più parziali: alcune regioni applicano il divieto solo nei giorni in cui i bollettini segnalano un “alto rischio fisico” mentre diventa sempre più pressante il tema di lavoratori meno tutelati come i rider i quali, più che essere protetti, sono incentivati a lavorare con minuscoli aumenti percentuali. Ha fatto molto discutere ad esempio il “bonus caldo” di Glovo che offre un sovrappiù del 2% quando si lavora tra i 32 e i 36 gradi, del 4% tra i 36 e i 40, dell'8% per temperature superiori ai 40 gradi. Aumenti che si traducono in pochi spiccioli ma che Glovo difende sostenendo che i suoi rider godono di una propria indipendenza sulla quantità e le tempistiche del proprio lavoro – inutile dire che la proposta ha suscitato non poca indignazione da parte di chi crede che il servizio dovrebbe essere sospeso in caso di caldo estremo.
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E volendo allargare ancora di più il discorso, è chiaro che il caldo estremo è ormai un rischio strutturale per il mondo del lavoro in quanto tale. Come riporta il Corriere della Sera secondo l’OMS, nel 2022 il clima ha causato 61.000 morti in Europa e le morti da caldo sul lavoro sono aumentate del 42% dal 2000. Eppure in Europa non esiste ancora una legislazione comune che regoli gli scenari, sempre più frequenti, in cui l’eccessivo calore possa mettere a rischio la salute dei lavoratori: la Confederazione Europea dei Sindacati ha di recente chiesto all’Unione Europea una direttiva specifica, ricordando che il rischio di infortuni aumenta del 5-7% sopra i 30°C e può arrivare al 15% oltre i 38°C. Ma i dati riguardanti il futuro sono ancora più preoccupanti: secondo un rapporto del 2024 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) oltre il 70% della forza lavoro globale è esposta a rischi per la salute legati al cambiamento climatico, e i sistemi di protezione della salute e sicurezza sul lavoro faticano a stare al passo con l’intensificarsi delle minacce. I dati mostrano non solo che 2,4 miliardi di lavoratori, su un totale globale di 3,4 miliardi, cioè 3 su 4, sono esposti a caldo eccessivo durante l’orario di lavoro ma anche che la quota è aumentata dal 65,5% nel 2000 al 70,9% nel 2020 della forza lavoro mondiale. Non solo il caldo eccessivo è responsabile ogni anno di 22,87 milioni di infortuni sul lavoro, 18.970 decessi, ma crea ciò che ILO ha definito un «cocktail di seri rischi per la salute» che vanno dalle radiazioni UV, all’inquinamento atmosferico, fino a ondate di insetti come zecche o zanzare che portano malattie infettive e all’esposizione ai pesticidi. Secondo Manal Azzi, responsabile del team OSH dell’ILO, «è evidente che il cambiamento climatico sta già creando per i lavoratori rischi sanitari significativi. È essenziale ascoltare questi segnali d’allarme. Le strategie climatiche devono integrare la sicurezza e la salute sul lavoro — non solo nelle politiche, ma anche nelle azioni concrete».