Hurry Up Tomorrow si può chiamare film? L'opera di The Weeknd con Jenna Ortega e Barry Keoghan non arriva al punto
Di Hurry Up Tomorrow si erano perse le tracce. Basato sull'omonimo album di The Weeknd uscito a gennaio 2025, interpretato dal cantante che è anche sceneggiatore della storia insieme a Reza Fahim e al regista Trey Edward Shults, il film era passato sotto traccia mentre i grandi festival della stagione lo snobbavano. Ma se all'inizio si pensava che il disinteresse fosse dovuto al malcapitato The Idol, serie del creatore di Euforia, Sam Levinson, che fu accusato di aver girato inutili scene di sesso che oggettificavano in maniera offensiva il corpo e la figura della popstar interpretata dalla co-protagonista di The Weeknd, Lily-Rose Depp, dopo aver guardato Hurry Up Tomorrow tutto diventa chiaro. L’averne sentito poco parlare, l’essere volato ben al di sotto dei radar di coloro meno attenti o affezionati al cantante, è stata più una specie di protezione che di noncuranza. Anche perché è bene capire da subito se “film” è la definizione giusta da usare, poiché non è di certo solo la durata di un prodotto a determinare la sua identità, bensì il contenuto, le operazioni di scrittura e produzione in cui è coinvolto e sì, talvolta, anche la sua riuscita. L’opera, diretta da Trey Edward Shults, altro non è che l’accompagnamento visivo alle tracce dell’album di The Weeknd, privo di racconto. Una storia messa insieme con lo scotch pur di trovare una logica al montaggio, un gioco di fantasia non di certo psichedelico o sopra le righe, come vorrebbe far credere, bensì è un enorme bluff per accompagnare il lavoro musicale dell'artista e vederlo depotenziato da un contenitore sterile e pruriginoso.
In Hurry up Tomorrow, non si capisce se deve essere il film a spiegare il testo delle canzoni o sono i testi delle canzoni a dover spiegare il film. Tutto forzato pur di acciuffarne il senso, che è poi la stessa cosa su cui si interroga non tanto il protagonista The Weeknd, ma la confusa e non ben quadrata personaggia di Jenna Ortega, che è anche produttrice esecutiva. Da una parte un’icona della musica il cui cuore spezzato sta avendo ripercussioni sulle corde vocali e la salute mentale (partendo anche da un evento realmente accaduto alla popstar, che è rimasta senza voce durante un concerto), dall’altra una ragazza che sta lasciando dietro a se tutto, bruciando qualsiasi ponte col passato. Il film finisce per diventare una brutta copia di un Misery non deve morire in un ambiguo rapporto tra star e fan che, inevitabilmente, tende ad avere un significato ben più metaforico. Come se The Weeknd avesse paura che i suoi testi non arrivassero abbastanza, come se il suo sound avesse bisogno di un supporto discorsivo che, invece, li svuota soltanto. Il risultato impoverisce il percorso del cantante al posto di arricchirlo (come un botteghino statunitense fermo a 5 milioni di dollari, con un budget di 15) influenzando anche la carriera del talentuoso regista Shults e delle due giovani stelle sempre più lanciate come la citata Ortega e Barry Keoghan, nel ruolo del manager. Un'operazione che ha dunque senso passi in silenzio. Un visual album un po’ troppo lungo che vuole essere definito film ma che, in fondo, non lo è poi tanto.