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"The Mastermind" è l’insolito heist movie anni Settanta con Josh O’Connor Un film che sovverte il genere e porta la firma riconoscibile di Kelly Reichardt

Josh O’Connor è davvero ovunque. Mentre attendiamo di vederlo nel prossimo film del maestro Steven Spielberg e lo abbiamo già sbirciato nei panni del prete del terzo capitolo della saga mystery di Knives Out, alla 78esima edizione del festival di Cannes ha ricoperto una doppia veste. Da una parte, per la regia di Oliver Hermanus, è l’innamorato di Paul Mescal nel dramma d’epoca History of Sound, e in chiusura del concorso cinematografico francese è il ladro d’arte protagonista dell’ultimo lavoro di Kelly Reichardt The Mastermind. L’autrice statunitense firma un heist movie dal ritmo personalissimo, il cui tocco è riconoscibile nella scrittura e nella regia dell’opera ambientata negli anni Settanta. Una rivisitazione del genere che rende il titolo assimilabile al resto della propria filmografia, mentre ricostruisce il colpo sgangherato e traballante del protagonista James (O’Connor), ben pianificato al punto da finire per andare tutto storto. 

@mubi It’s not stealing if you don’t get caught. New clip of Josh O'Connor in Kelly Reichardt's THE MASTERMIND. World premiering in competition at #Cannes2025 original sound - MUBI

Allentando l’andamento che vorrebbe il racconto del colpo grosso concitato e galoppante, dirigendosi esattamente nella direzione opposta dilatando i tempi e non suscitando (volontariamente) alcun tipo di eccitamento o adrenalina, The Mastermind è semplicemente il riepilogo di tutto ciò che potrebbe andare storto e che non manca di disattendere le aspettative. Mentre il protagonista James è fermamente convinto che tutto possa procedere per filo e per segno, la sceneggiatura disattende le aspettative, esattamente come fa nel tono utilizzato, realizzando un’opera controcorrente che distende invece di concitare, ironica al punto giusto come gli imprevisti spesso sanno essere. O’Connor è guardingo, illuso persino da se stesso, e organizza un furto di quadri da un museo come fosse la cosa più facile del mondo. Nessuna preoccupazione, nessuna conseguenza. È l’abbaglio che lo renderà cieco per l’intera pellicola - potremmo dire la sua “chimera”, per citare uno dei suoi grandi ruoli nel cinema - tanto da condurlo a veder cadere ogni certezza una dopo l’altra.

Prima la scelta errata dei complici, poi il matrimonio che sta riducendo lui stesso a pezzi. The Mastermind è un esempio di ostinazione dannosa; è il ritenere la propria vita più rilevante di coloro che ci abitano attorno, pari al pregio che hanno le opere d’arte e il motivo per cui James le sottrae. È il voler rendere la propria esistenza al livello di quei pezzi nati dalla creatività di qualche artista, così da non doversi accontentare di passare il resto dei propri giorni seduto dietro una scrivania. Non c’entra l’amore per l’arte in quanto tale, non si tratta nemmeno di un’attitudine. È il tentativo, a tratti disperato, di un uomo che non vuole accontentarsi, ma che non ha tutti gli strumenti adatti per controvertere le sorti della fortuna. La quale, mossa dalla mano di Kelly Reichardt, a propria volta non ha alcuna intenzione di favorire in alcun modo il protagonista. Nel vortice delle casualità che si abbattono con spiritosa coincidenza tutte sul James di O’Connor, The Mastermind è una favoletta morale - che esclude comunque ogni giudizio o insegnamento - su l’uomo che pretende di avere di più, quando non gli basta essere nato in una buona famiglia, aver avuto due figli e che avrebbe potuto aspirare a qualcos’altro invece del provare ad essere null’altro che un ladruncolo. È un film che non appassiona o aggancia saldamente lo spettatore, il quale osserva a ogni modo divertito il destino riservato al protagonista e che lo ricorderà esattamente così, come una notizia su un qualche furto d’arte impacciato e imbranato di cui ogni tanto si può leggere sul giornale e di cui poi si dimentica.